A parole l’Unione europea prima cade dalle nuvole e poi si indigna, per il viaggio a Mosca di Viktor Orbán questo venerdì; ma nei fatti rifiuta di usare le leve che ha a disposizione per stigmatizzarne il comportamento. Così l’opinione pubblica europea deve assistere allo spettacolo di Vladimir Putin che accoglie il despota ungherese con: «So che lei è venuto qui non solo come nostro partner ma come rappresentante della presidenza di turno dell’Ue; mi aspetto quindi che lei condivida non solo la sua posizione ma pure quella europea» sulla guerra. Lo spettacolo è fuori da ogni crisma: a Bruxelles ci si affretta a dichiarare che Orbán non può parlare a nome dell’Ue, e intanto in oltre due ore di colloquio l’apripista di Putin in Ue va a riferirgli del «senso di insicurezza che la guerra genera in Europa».

Agli ungheresi il premier va raccontando che è «in missione di pace», e inquadra il viaggio a Kiev di inizio settimana – insieme a questo in Russia che in realtà era stato organizzato prima – come un suo zelo pacifista. Sulla propaganda e sugli interessi pragmatici si fonda l’azione del premier illiberale d’Europa. È in nome della propaganda che Marine Le Pen ha lasciato a lui l’iniziativa comunicativa sul venturo gruppo dei “Patrioti per l’Europa”, nel quale è coinvolta anche la Lega di Matteo Salvini. Ed è in nome degli interessi pragmatici che Orbán – in pieno regime di sanzioni – trova il modo di continuare a discutere con Putin di progetti come quello della centrale nucleare Paks 2. Dopo l’aggressione russa dell’Ucraina, sono stati tanti i viaggi del governo orbaniano al Cremlino, così come pure nel 2023 Orbán ha incontrato Putin, anche se a Pechino.

Ma questo recente è l’atto più smaccato, anche perché avviene nella settimana di esordio della presidenza ungherese di turno dell’Ue, la stessa che è stata rebrandizzata dal despota con «Make Europe Great Again»: uno stile trumpiano, e infatti pare vi sia un canale costante con Trump e il suo entourage. Il premier ungherese si comporta da troll dell’Unione europea, e al di là delle dichiarazioni stizzite i governi europei, che hanno il potere di fermarlo, quel potere non lo usano fino in fondo, in linea con la tradizione di compromesso che è stata prima coniata da Angela Merkel e poi ereditata da Emmanuel Macron.

L’incontro «speciale»

«Questo è il quattordicesimo incontro ma è un incontro speciale: avviene in tempo di guerra». Non per caso, Orbán fa partire il conto dei bilaterali dal 2009: con quell’incontro avvenuto un anno prima della sua rielezione a premier, e dell’inizio delle sue derive autocratiche, il leader di Fidesz ha costruito il canale di collaborazione con Mosca. Nel 2022 c’è stato un lungo faccia a faccia a pochi giorni dall’inizio dell’aggressione russa; nella stessa fase anche Macron è andato al Cremlino. A ottobre del 2023, dunque in piena guerra, Putin e Orbán si sono stretti la mano a Pechino: «Può esser solo motivo di soddisfazione che le nostre relazioni si mantengano e si sviluppano», ha detto all’epoca il premier ungherese.

Negli anni della guerra intanto il suo governo al Cremlino è stato spesso; ci è stato pure questo venerdì Péter Szijjártó, il ministro degli Esteri premiato con la medaglia dell’amicizia da Lavrov, lo stesso il cui ministero è stato bucato dagli hacker russi. «Szijjártó ha fatto nove viaggi in Russia da quando Putin ha invaso l’Ucraina», ha fatto notare l’ambasciatore Usa di stanza a Budapest.

«Quel che era vero dell’incontro Orbán-Putin in Cina è vero dell’incontro a Mosca: la pace non c’entra nulla, si tratta di profitto; e così si incrina la relazione dell’Ungheria coi suoi alleati», ha concluso David Pressman, che per riportare Orbán sulla via della Nato negli ultimi mesi si è esercitato in ipotesi di sanzioni e missioni speciali del Congresso. Jens Stoltenberg, a nome dell’Alleanza atlantica, ha fatto sapere che la Nato era stata informata del viaggio di Orbán, anche se ovviamente «il premier non rappresenta l’alleanza». I vertici europei hanno detto che l’incontro non era stato in alcun modo concordato e tutti, dall’alto rappresentante Ue al presidente del Consiglio europeo, hanno sottolineato che Orbán non è certo andato a negoziare la pace a nome dell’Ue. Hanno ribadito che l’unità è importante e che non c’è pace senza l’Ucraina al tavolo.

Un’Europa sulla soglia

Eppure, incalzato sui provvedimenti che Ursula von der Leyen intende prendere, il portavoce Eric Mamer non ha citato altra opzione che quella di cancellare il viaggio previsto a settembre a Budapest nella cornice della presidenza ungherese. Von der Leyen stessa è stata spedita in tribunale dall’Europarlamento per aver scongelato a Orbán dieci miliardi con tempistiche dettate da calcolo politico. Questo venerdì i capi di governo europei hanno mostrato sdegno: «Non può esser vero che vai a Mosca, vero Viktor?», gli ha mandato a dire il premier polacco Donald Tusk. E poi: «Orbán dice di essere strumento per la pace, ma nelle mani di chi?».

Parole di sdegno sono arrivate da più parti, ma si guardi ai fatti. Pur allertati sui pericoli da oltre un anno, i governi europei non ne hanno voluto sapere di impedire che l’Ungheria assumesse la presidenza di turno dell’Ue in un frangente così delicato. Solo l’Europarlamento ha provato una mossa in tal senso, rimanendo inascoltato. Ed è ancora una volta solo il Parlamento Ue ad essersi mosso, già nel 2018, per attivare l’articolo 7, quello cioè che prova a mettere un freno agli stati membri che minano i valori democratici dell’Ue. Senza il Consiglio europeo, ovvero senza i governi, quella leva è bloccata, ed è da sei anni che il Consiglio ne parla senza fare nulla; l’ultima audizione è stata a metà giugno. Non è un caso che Orbán abbia votato a favore sulla nomina del nuovo presidente del Consiglio stesso: come ha già detto qualcuno, la prima cosa che lo orienta è il suo interesse.

© Riproduzione riservata