La Orf, Österreichischer Rundfunk (la “Rai” austriaca) ha selezionato uno stuolo di esperti incaricandoli di scrivere come vedono il “Futuro del servizio pubblico mediale nella Unione europea”. Ogni stato è stato così affidato alle cure analitiche di un autore e la complessiva chiave di lettura è quella dell’allarme per gli esiti della digitalizzazione che «da trasformazione è divenuta destrutturazione massiccia dell’economia dei media e della loro stessa percezione».

Mentre i giornalisti dei servizi pubblici – parafrasiamo dal rapporto – sono sotto attacco da parte delle correnti di destra (che del resto non li hanno mai visti di buon occhio come insegna la stessa Inghilterra), il finanziamento pubblico è revocato in dubbio, i governi abusano del potere e i social media dei giganti globali spingono la presenza pubblica all’irrilevanza.

La raccolta di saggi è densa di osservazioni interessanti e alcuni sono irrinunciabili per chi segue la materia per esigenze didattiche o professionali, ma dovendo ridursi all’essenziale ci pare che il lavoro sia segnato da un eccesso e una mancanza.

Un eccesso e una mancanza

L’eccesso risiede nel ruolo attribuito ai servizi pubblici che, incitati a evolvere al più presto dal broadcasting alla medialità allargata sono anche vagheggiati come mezzi di contenimento e contrasto del blob parainformativo che a fiotti scaturisce da internet.

La mancanza ci pare invece stia nella scarsità di riferimenti al pur coevo Regolamento europeo per la libertà dei media, di cui erano note da almeno un anno le linee di fondo e, in particolare, la nettissima posizione riguardo al presupposto, definito «basico», dell’indipendenza funzionale ed editoriale nel qualificare l’impresa del servizio pubblico a essere finanziata col denaro dei contribuenti.

Insomma, l’impressione è che alla maggioranza degli esperti quella prescrizione di indipendenza di realtà complesse e da sempre dipendenti sembri da prendere con le molle, non fosse altro che bisognerà vedere cosa sarà accaduto da qui a poco più d’un anno quando, a regola di legge, dovrebbe essere realizzata.

Per contro nulla impedisce di spendere pagine su pagine per rilanciare la missione del servizio pubblico sul campo della digitalizzazione e delle distruzioni che ne sono derivate e tuttora ne stanno derivando. Ma proprio a questo riguardo l’intendimento pur lodevole di contrapporre la qualità alla disinformazione, rischia di sopravvalutare il potenziale alternativo dei servizi pubblici rispetto alla strapotenza negativa della rete che proviene da profonde radici dei modelli di business e della sostanziale deregolazione dell’ultimo trentennio.

I danni del tech business

Certo, va accettato, e senza farne drammi, che una certa parte della «negatività informativa» di internet derivi dalla struttura stessa della rete e del web in particolare, in quanto fattore e catapulta dei contenuti generati dagli utenti dai quali arriva (ma sarebbe anche il suo bello) tutto e il suo contrario.

Così come è scontato che qualsiasi scambio di comunicazione da punto a punto finisca col creare relazioni privilegiate fra Tizio e Caio rispetto a Mevio e Antonio (le cosiddette bolle valoriali e cognitive, autoreferenti e sorde l’una all’altra).

Ma alla fonte della disinformazione sistematica, condotta da centri di interesse, di marketing e da spioni e manipolatori del gioco democratico, stanno gli account anonimi, multipli e robotizzati, coordinati dagli algoritmi delle piattaforme. Che sono disegnati per fare tanto più da strilloni quanto più il materiale inoculato in rete risulti efficace nel mettere in trincea e fidelizzare lo scroll e la tastiera dell’utente in carne e ossa, profilato volta a volta come consumatore od elettore.

Per non dire che l’anonimato – consentito da procedure di identificazione degli account ridicole rispetto a quelle richieste per ordinare una pizza o aprire un conto in banca – cancella ipso facto la dimensione della responsabilità e rende impossibile il contraltare della disputa pubblica o della lite giudiziaria, unica possibile e concreta forma di “moderazione” dei contenuti della rete (altro che la caccia algoritmica alle espressioni d’odio, ai nudi, alle parolacce).

Quindi, se vogliono agire sul problema della disinformazione, che esiste al di là di ogni misura immaginabile, i servizi pubblici possono già farlo denudandone le cause reali con la loro potenza informativa che seppur malconcia è ancora rilevante presso le classi dirigenti dell’economia e della politica.

Certo, si tratterebbe di prendere per il bavero gli interessi palesi e occulti, forti e vendicativi che da trent’anni ingrassano internet. Il che non accadrà né potrebbe mai accadere se non dopo che i servizi pubblici siano divenuti indipendenti per davvero. Perché i condizionamenti strutturali vengono prima d’ogni sforzo di buona volontà di qualsiasi operatore dell’informazione rispetto alla necessità di azioni organiche, testarde e continuative appoggiate dal corpo intero delle aziende di servizio pubblico, come elementi propri della loro missione.

Dove guardare

Si torna sempre, insomma, alla questione centrale dell’indipendenza dei servizi pubblici e al modo più o meno essenziale in cui questa si propone, uno per ciascuno, nei 27 membri dell’Unione.

Per quanto ne sappiamo, anche grazie alle analisi raccolte dal servizio austriaco Orf, nei 27 servizi pubblici europei ci pare si possano distinguere quattro gruppi:

1) il Belgio e i baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) con potenti comunità d’altra lingua che li dividono dall’interno. Una condizione che automaticamente gli impedisce di volare verso mire industriali più ambiziose del realizzare una decente soluzione di convivenza;

2) i nordici (Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia, cui aggiungiamo l’Islanda) che dal tempo dei vichinghi si considerano parenti e i cui servizi pubblici si sostengono a vicenda in modo dignitoso ed efficace che quasi somiglia a una condizione di indipendenza;

3) Polonia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca, Slovenia, Croazia, Romania, Bulgaria, Malta, Cipro, Irlanda, Olanda, Portogallo, e, va da sé, Italia, dove sarà dura staccare la presa dai servizi pubblici da parte della politica locale che li ri-conosce e li finanzia solo come strumenti di governo;

4) Francia, Germania, Spagna, che giocano una partita loro perché hanno forti imprese private e servizi pubblici che godono, se non dell’indipendenza formale, certamente di forti margini di concreta autonomia grazie al rispetto indotto dagli obiettivi strategici che perseguono. Il servizio pubblico spagnolo perché trae forza e retroterra di mercato non solo dagli iberici, ma anche dai centinaia di milioni di persone di lingua ispanica latino americani e statunitensi. La Francia perché ha investito nella propria industria audiovisiva grandi risorse pubbliche, sia statali sia del servizio pubblico e deve assicurargli prospettive di sviluppo. La Germania (integrata quando serve da austriaci e svizzeri tedeschi) perché rappresenta la comunità linguistica europea più ricca di risorse, pubbliche e private, tanto da essere un grande che però, per reggere l’urto dei colossi d’oltre Atlantico, deve espandere il retroterra “casalingo” al continente intero (cioè a quel mercato comune europeo dell’industria mediale cui il Regolamento dichiaratamente mira).

È chiaro che da qui alla data (8 agosto 2025) in cui il Regolamento prescrive che quelle imprese si trasformino da oggetti a soggetti, non staccheremo gli occhi da quanto accadrà in quei paesi dove da sempre le “Rai” sono instrumenta regni e i cui governi, sospettiamo, il Regolamento europeo non l’avrebbero mai voluto. Ma evidentemente non avevano parole dicibili con cui opporsi. Ed è su quella assenza di parole che contiamo.

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