Le proteste interne ai Labour per la linea del leader, che rifiuta di chiedere il cessate il fuoco, accentuano le fratture interne. Già prima della guerra, bastava la cacciata di Ken Loach a segnalare che con Starmer il partito sta uscendo da se stesso: un’altra exit, dopo Brexit. Con i conservatori in declino nei sondaggi, per la sinistra è il momento giusto; peccato che Starmer rischi di essere il leader sbagliato
In centinaia ancora protestano: Keir Starmer può anche far finta che non sia così, ma il suo discorso riparatore su Gaza ripara ben poco, delle fratture interne al partito laburista da lui guidato. Anche tra i pezzi grossi del Labour c’è ancora chi spinge per il cessate il fuoco, e per condannare il massacro di palestinesi con altrettanta fermezza che quello subìto da Israele.
Aveva ragione il politologo Ivan Krastev quando al deflagrare della guerra in Ucraina ha previsto che il campo politico si sarebbe ristrutturato attorno ad altri cleavages, altre fratture, e non più solo tra destra e sinistra. Ma il caso della tormentata sinistra britannica è unico. Già prima della guerra in Medio Oriente, bastava la cacciata di Ken Loach, il bardo della working class, a segnalare che con Starmer il partito sta uscendo da se stesso: un’altra exit, dopo Brexit. Del resto gli europeisti che lo avevano sostenuto come segretario si sono schiantati contro quel suo «non si torna indietro su Brexit» pronunciato nel 2022. Per molti aspetti – a cominciare dalle derive securitarie – questo leader dirotta il Labour verso destra. Insomma le contraddizioni interne c’erano già prima del 7 ottobre.
L’altra nota inedita dello “Starmer Drama”, come lo chiamano a Londra, è che si verifica proprio mentre i laburisti hanno la vittoria in pugno: da tempo i sondaggi indicano che la gente è stanca dei conservatori. Per la sinistra è il momento giusto, peccato che Starmer rischi di essere il leader sbagliato. Quando YouGov prova a raccogliere il sentimento dei britannici nei suoi confronti, scopre che solo al 22 per cento piace, mentre oltre il doppio non gradisce affatto; uno su tre resta indifferente. Galleggiare: questa è la strategia del leader per scavalcare le tensioni interne. Sta già alternando purghe e ricomposizione: a criticarlo c’è pure gente del suo giro, non può epurare tutti.
La dinamica della crisi
L’11 ottobre, nel pieno della convention laburista, in un’intervista al canale Lbc, Starmer insiste sul «diritto di Israele di difendersi» e lo ribadisce anche quando gli chiedono dell’assedio di Gaza, dei tagli ad acqua ed elettricità. Deputati, pezzi importanti del suo governo ombra, amministratori locali come il sindaco di Londra e quello di Manchester, esponenti laburisti di ogni grado, e di diverse sfumature di sinistra, non digeriscono che dopo il supporto al governo israeliano non ci sia stato anche un riferimento tempestivo e netto ai civili palestinesi.
«Starmer non ha condannato l’assedio, né le violazioni del diritto internazionale, e se è vero che tutto ciò potrebbe compromettere il consenso laburista tra i musulmani, il vero punto è che dovremmo batterci per i diritti umani». Così Shaista Aziz, consigliera comunale a Oxford, spiega perché ha lasciato il partito, assieme a decine di amministratori locali. Nel frattempo il nodo del cessate il fuoco – che Starmer continua a non chiedere – ha fatto deflagrare le tensioni.
Con l’ala più a sinistra del partito, Starmer era già andato alla resa dei conti tempo fa, cacciando il suo predecessore, Jeremy Corbyn, con la motivazione di antisemitismo. Il deputato Andy McDonald è stato sospeso per aver detto alla manifestazione di sabato per Gaza che «non ci fermeremo fino a quando tutti, israeliani e palestinesi, tra il fiume e il mare potranno vivere in pacifica libertà». Momentum, il movimento di sinistra che portò alla vittoria Corbyn, non perdona a Starmer che «sostenga gli attacchi contro Gaza». A premere sul leader perché chieda il cessate il fuoco c’è pure parte del governo ombra. Ci sono due sindaci popolari, di Londra e Manchester, Sadiq Khan e Andy Burnham.
Così il leader ha provato a blindare tutti dietro il discorso di martedì a Chatham House: accanto alla tragedia subita da Israele ha contemplato le sofferenze di Gaza; per poi dire comunque che «capisco gli appelli per il cessate il fuoco ma non è la posizione corretta da tenere ora». Meglio la «pausa umanitaria». Dopo quel discorso, c’è chi ha rinunciato a dimettersi, ma pure tanti che sono insorti: oltre 330 consiglieri locali hanno scritto ieri al leader per dirgli che «se non condanna inequivocabilmente la violenza contro i civili, compromette le nostre comunità».
© Riproduzione riservata