La piattaforma Network Against Migrant Detention ha manifestato davanti all’hotspot di Shengjin e al centro di trattenimento di Gjader, per poi spostarsi a Tirana di fronte alla sede del governo albanese e dell’ambasciata italiana. Duecento persone chiedono la chiusura dei centri e lo stop definitivo delle deportazioni
Sono circa duecento le attiviste e gli attivisti italiani e albanesi che hanno manifestato per le strade di Tirana contro i centri per migranti costruiti dall’Italia in Albania. Davanti alla sede del governo albanese e dell’ambasciata italiana, hanno chiesto di fermare l’applicazione del protocollo, secondo cui persone migranti provenienti da paesi sicuri, non in condizioni di vulnerabilità, se salvate dalle navi delle autorità italiane, possono essere portate oltre Adriatico, in attesa della decisione sulla loro richiesta di asilo.
Riuniti nella piattaforma Network Against Migrant Detention, domenica 1 dicembre hanno invece riempito le strade di Shengjin, cittadina portuale dove è stato costruito uno dei centri, destinato all’identificazione e al fotosegnalamento. Si sono poi spostati a Gjader, un paese nell’entroterra, nel nord dell’Albania, a una ventina di minuti di auto dal porto. Qui il ministero della Difesa ha costruito tre centri in un sedime militare abbandonato: un centro di trattenimento per richiedenti asilo, uno per i rimpatri e un penitenziario da 20 posti.
Ora i centri sono vuoti, dopo le decisioni dei giudici di Roma che, in applicazione al diritto Ue, hanno deciso di non convalidare i trattenimenti per il primo gruppo di 12 persone e, in seguito, per il secondo gruppo di sette, di rinviare la questione alla Corte di giustizia europea. Il 4 dicembre è attesa l’udienza in Cassazione, chiamata a decidere sui ricorsi del ministero dell’Interno contro la decisione di non convalida dei trattenimenti dei primi dodici uomini portati nelle strutture. Nel frattempo i centri sono rimasti presidiati da poche decine di agenti delle forze dell’ordine e di operatori della cooperativa Medihospes, a cui è stata affidata la gestione. Tra le forze dell’ordine, sono rimasti 15 poliziotti penitenziari e il centro è ora popolato da cani randagi, come raccontato da Domani.
Le istanze dei manifestanti
«No lager di stato», «basta deportazioni», si legge sui cartelli dei manifestanti, che evidenziano come «l’accordo Rama-Meloni, oltre a essere incostituzionale, segua gli interessi politici dei due primi ministri».
Per il Network contro la detenzione amministrativa, anche se i centri sono momentaneamente vuoti, è importante mantenere alta l’attenzione e rivendicarne la chiusura, «mantenendo vivo il sostegno alle persone oppresse». I centri in Albania, proseguono, sono stati realizzati sulla stessa linea dei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) italiani: hanno in comune «l’isolamento» e «la difficoltà di monitoraggio».
Un modello di esternalizzazione che, sottolineano i manifestanti, «rappresenta il culmine di un processo politico iniziato più di vent’anni fa e che trova nuova linfa nel Patto europeo approvato alla fine della scorsa legislatura». E aggiungono: «Ci opponiamo a un sistema che promuove l’apertura di nuovi lager e la criminalizzazione delle proteste delle persone recluse che lottano per la propria libertà e per il rispetto della propria dignità, mentre sono costrette a vivere in condizioni inumane e degradanti». Ci si riferisce alla norma inserita nel ddl Sicurezza che introduce il reato di rivolta in carcere e sanziona i comportamenti di resistenza passiva.
E, proseguono, il network si oppone a un sistema in cui le persone migranti sono costrette a scegliere tra il rischio di morte o il rischio di essere private della propria libertà. Senza alcun canale di ingresso legale e sicuro.
«Accettare questo meccanismo di deportazione senza opporsi significa esserne complici e noi non lo saremo», commenta Mediterranea Saving Humans, che come ong effettua soccorsi in mare e denuncia: con il protocollo Italia-Albania «la zona SAR italiana, zona di ricerca e soccorso di competenza delle autorità italiane, è stata trasformata in area di intercettazione per la deportazione in Albania», ribaltando così il concetto di soccorso.
E, infine, i manifestanti mettono in luce come il protocollo firmato dalla premier Giorgia Meloni e dall’omologo Edi Rama, poco più di un anno fa, sia «strumento di una politica neocoloniale». Conclude Mediterranea: la concessione della giurisdizione dei territori albanesi all’Italia, giustificata dal “rafforzamento della collaborazione in materia migratoria”, «è infatti un subdolo tentativo di perpetuare le disuguaglianze economiche e di minare la sovranità territoriale albanese».
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