Femminista, progressista, empatica e competente, la prima ministra incarna l’opposto dei populismi di destra. Non teme di assumere decisioni impopolari, il che è uno dei segreti della sua popolarità. Storia di una leader contro corrente che gli scozzesi amano e gli inglesi invidiano
- Nicola Sturgeon, figlia di un’infermiera e di un elettricista, sfoggia eloquio perfetto, competenza e soprattutto empatia. Diversamente dal premier britannico, ha mostrato di saper gestire la crisi da Covid-19 e il suo consenso ne è uscito rafforzato.
- Sturgeon comincia a far politica già adolescente, motivata da coscienza sociale, indignazione per le politiche di Thatcher e antinuclearismo.
- Dal 2014 diventa premier e amplia il consenso combinando europeismo e indipendentismo. Il suo non è un sovranismo delle frontiere, ma un nazionalismo civico, ispirato ad accoglienza, equità e giustizia.
In politica non esistono i miracoli, ma i paradossi sì, e la prima ministra scozzese ne incarna parecchi. Vorrebbe una Edimburgo europea e indipendente da Londra, ma sempre più inglesi preferirebbero lei come leader, piuttosto che Boris Johnson, la cui cattiva gestione della pandemia lascia insoddisfatti pure i conservatori. Mentre il premier britannico, che ha studiato lettere classiche a Oxford, condisce i propri discorsi di citazioni in latino e di gaffe, Nicola Sturgeon, figlia di un’infermiera e di un elettricista, sfoggia eloquio perfetto, vasta competenza e soprattutto empatia. Compassionate: è l’aggettivo più usato dagli scozzesi per descriverla. Johnson durante la pandemia ha agito tardi e senza ascoltare gli esperti: temeva di diventare impopolare con decisioni difficili. Sturgeon è intervenuta con rapidità e considerazione per gli scienziati, senza timore di assumere decisioni impopolari; ed è questo, per paradosso, uno dei segreti della sua popolarità, che esce dalla pandemia persino rafforzata.
L’anti populista
L’ultima prova della fermezza di Sturgeon l’ha avuta Donald Trump: il 20 gennaio, giorno del giuramento di Joe Biden, avrebbe voluto “fuggire” su un campo da golf scozzese. Non se ne parla, ha fatto sapere lei: qui vigono le restrizioni per Covid-19, «e non mi pare che il golf rientri tra le questioni essenziali che giustificano gli spostamenti». In tempi di populisti di destra che alzano la voce, Sturgeon opta per toni fermi e posati: gli altri urlano slogan, lei articola ragionamenti.
Vuole l’indipendenza, ma non per inseguire i “sovranismi” delle frontiere chiuse, anzi: il partito di cui è leader, lo Scottish national party (Snp), predica un “nazionalismo civico”; l’indipendenza da Westminster serve per rafforzare la governance democratica scozzese. E per tornare nella Ue: il 62 per cento degli scozzesi nel 2016 ha votato contro Brexit, da allora Sturgeon intreccia la causa europeista e quella indipendentista. Veicola messaggi di accoglienza verso gli europei residenti in Scozia (italiani inclusi) e usa il mix delle due battaglie per rafforzare il consenso. Un sondaggio effettuato a dicembre da Savanta ComRes indica che l’indipendentismo miete nuovi seguaci: in caso di nuovo referendum per l’indipendenza, il 58 per cento voterebbe sì, in crescita di cinque punti rispetto alle rilevazioni precedenti.
Le ispiratrici di Sturgeon
La storia politica di Sturgeon è legata a due donne. Una è Margaret Thatcher: «Quando ero adolescente ho visto gli effetti delle sue politiche, tanti nella mia comunità erano disoccupati, il che ha sollecitato il mio senso di giustizia sociale», ha detto. Thatcher è insomma il modello da evitare, e stimola la vena indipendentista della giovane Sturgeon, che si convince «di quanto fosse ingiusto per la Scozia farsi governare dai conservatori, per i quali non aveva votato». Il paese aveva già sperimentato, nel 1979, quando Sturgeon aveva solo 9 anni, un primo referendum per la devolution, stimolato dalla scoperta del petrolio nel mare del Nord e dal nazionalismo economico; ma quel referendum non aveva raggiunto neppure il quorum. Negli anni Ottanta, però, lo scontro con Londra si è acuito: con il partito laburista grande egemone di Scozia, e contraltare della Londra conservatrice, Thatcher usa la Scozia come “cavia” per le sue politiche; nel 1989 sperimenta qui la “poll tax” (la tassa “per testa”) e a seguito delle proteste massicce è costretta a ritirarla. Anti-thatcherismo e coscienza sociale spingono Sturgeon a impegnarsi in politica; anche l’attivismo contro il nucleare ha un ruolo. La presenza dei sottomarini nucleari, inglesi ma parcheggiati in Scozia, è una delle ragioni che tuttora animano la richiesta di indipendenza.
A 16 anni, Sturgeon bussa alla porta di Kay Ullrich, attivista anti-nucleare e candidata al parlamento per l’Snp, e si offre di aiutarla con la campagna elettorale. Tra le due nasce un sodalizio: «Oltre che un’amica, Kay è stata una delle figure più influenti della mia vita» ha detto la prima ministra il 4 gennaio, quando la sua mentore è morta. Nel 1992 Ullrich ha perorato la candidatura in parlamento di una Sturgeon appena 22enne - la più giovane candidata dell’Snp - e ha preconizzato: «Questa lady sarà la prima leader donna dell’Snp, un giorno». «Fosse stata un’arrivista, non avrebbe scelto l’Snp, che all’epoca non pesava» ha raccontato poi Ullrich. «Nicola è determinata: la motiva la sua coscienza sociale».
I referendum
La determinazione, e un lungo cursus honorum, portano Sturgeon a diventare vice di Alex Salmond, leader dell’Snp e primo ministro dal 2007 al 2014, gli anni della “grande scalata” dei nazionalisti. Già a fine anni Novanta, grazie al referendum del 1997, si insedia il parlamento “devoluto”, con margini di decisione sul welfare per esempio. Poi il 2010, anno in cui David Cameron dà il via all’austerity, è il momento della svolta: il partito indipendentista inizia la sua ascesa ed erode voti ai laburisti. «Dopo decenni al potere, i labour scozzesi erano diventati grassi e pigri» dice Robin McAlpin, ex consulente dei laburisti e ora alla guida del think tank Common Weal.
Nel 2012 Cameron e Salmond firmano un accordo che dà il via ai preparativi per il referendum sull’indipendenza del 2014. I sì arrivano solo al 45 per cento, ma la sconfitta di allora è paradossalmente uno dei motivi per i quali oggi gli indipendentisti chiedono un nuovo voto: «Dopo Brexit ci sentiamo presi in giro» dice Lynzi Leroy, che coordina un collettivo di artisti e ha fatto campagna sia per l’indipendenza che per il Remain. «L’allora presidente della Commissione José Barroso, prima del voto del 2014, disse che se ci fossimo staccati da Westminster sarebbe stato impossibile rimanere nell’Ue. Ora ci ritroviamo fuori dall’Europa nostro malgrado». Dopo la sconfitta del 2014, Salmond si dimette e lascia il posto a Sturgeon, che da allora governa.
Quel referendum, per quanto perso, lascia in eredità una grande mobilitazione, amplificata dalla scelta di far votare i sedicenni e gli europei residenti. Due giovani su tre sostengono l’indipendenza, e un’ondata di civismo – anziché di populismo - anima la Scozia. Le ragioni del sì, dice Neill Walker, militante dell’Snp e fotografo della campagna referendaria, «non erano dettate da paura e rabbia verso l’altro, ma dal sogno: di una Scozia che, libera dalla Londra conservatrice, sia avamposto di equità e accoglienza». Una sorta di nuova Scandinavia socialdemocratica.
Il benessere al governo
Per quel che i suoi poteri le consentono, la prima ministra ha effettivamente sostenuto politiche progressiste. In Scozia l’università, così come le ricette mediche, sono gratuite per tutti. Da quest’anno sono gratis pure gli assorbenti. «Se c’è una parola che Sturgeon usa per definirsi, è “femminista”», dice Walker: «Grazie a lei tante donne si sono avvicinate alla causa indipendentista». Nel 2018 la leader scozzese, quella islandese e neozelandese hanno stretto una “alleanza per il benessere”: «Non conta solo la crescita economica, ma pure la felicità» dice Sturgeon. Benessere ed economia non si escludono per forza tra loro, e Covid-19 lo dimostra: «La premier è stata tra i primi a capire che salvaguardare la salute pubblica protegge anche l’economia: concepire le due cose in alternativa è errato» dice Anton Muscatelli, economista, rettore dell’università di Glasgow e consulente economico per svariati governi compreso quello Sturgeon.
Nei mesi di pandemia, la premier ascolta gli esperti e agisce tempestivamente: il contrario di Johnson. Simone Caffari, che a Edimburgo fa il traduttore, dice che «ogni giorno la prima ministra aggiorna in tv sulla situazione dell’epidemia e alle metafore belliche, usate da leader come Macron e Johnson, preferisce un approccio empatico, competente, responsabile». Con un consenso che la pandemia accresce invece di erodere, Sturgeon prepara le elezioni del 6 maggio. E poi, spera, un nuovo referendum. Fergus Henderson, della campagna per il sì, ritiene che la leader sia «sin troppo cauta: Johnson non darà mai il suo consenso a farlo. Spero che la Corte suprema ribadirà che, essendo noi un popolo sovrano, non ci serve il sì di Londra per esprimerci».
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