Undici esseri umani sono stati inghiottiti dalla Drina alla fine di agosto, al confine tra Bosnia e Serbia: solo i poveri annegano quando migrano, in mare o in qualche fiume dei Balcani, la scelta di salire sopra una zattera è una questione squisitamente di classe.

Sono soprattutto i siriani in doppia fuga, dalla Siria e dalla Turchia, a cercare le vie d’acqua per riuscire ad arrivare in Europa: un percorso obbligato per chi ha un budget inferiore ai cinque/seimila dollari, cifra sotto la quale non si possono acquistare i servizi “sicuri” che i trafficanti vendono online.

Con poche migliaia di euro in tasca i migranti che affrontano i Balcani per giungere in Europa – sono sempre meno, Frontex recentemente ha dichiarato che la nostra fortezza è di fatto ormai inespugnabile dato che vi è stato un calo nei passaggi del 72 per cento rispetto al 2022 – prima o poi raggiungono le coste turche di Smirne dove fiorisce la truffa dei gommoni che partono verso le coste di qualche isola greca: un servizio che costa poco e vale poco. Funziona come il gioco d’azzardo perché le barche sono quasi sempre bloccate dopo pochi metri e solo qualcuno riesce a passare in virtù di un accordo, ovviamente mai dichiarato, tra forze di polizia e trafficanti.

Ogni tanto al gratta e vinci della migrazione qualche povero disgraziato vince e passa, la notizia gira nelle chat dei gruppi di migranti, frotte di poveri arrivano per tentare la sorte. Chi non pesca il biglietto giusto viene spostato via terra, sempre grazie ai servizi venduti su Telegram, verso Edirne, capitale dell’impero ottomano fino alla caduta di Costantinopoli, cerniera tra Asia e Europa da sempre.

Qui si trova il fiume Evros ed è il primo di alcuni fiumi strategici: separa Turchia e Grecia ed è forse la zona anti migranti più fortificata d’Europa: oltre ad avere la funzione di fermare fisicamente le persone spiega bene ai migranti che l’Unione europea è pronta a rimangiarsi i princìpi dello stato di diritto pur di fermarli.

Invalicabile

L’Evros è un fiume placido e fangoso, gonfio di acqua solo quando vi sono stagioni piovose: i migranti, abbandonati dai trafficanti a un paio di chilometri dal corso d’acqua, tentano di guadarlo con zattere improvvisate. Sorvolato da droni, fortificato in più punti con reti e pattugliato giorno e notte, è di fatto invalicabile.

A volte qualcuno riesce a passare, ma dall’altra parte trova un apparato di sicurezza che li ributta nel fiume. La zona è chiusa all’occhio dei giornalisti, che possono ricostruire cosa accade solo in virtù delle testimonianze di chi torna indietro. L’Evros non è più in fiume naturale, ma una struttura architettonica gestita in virtù dei flussi migratori: Ifor Duncan e Stefanos Lefavidis sono due studiosi che nella loro ricerca “Weaponizing a River” hanno dimostrato che una serie di dighe gestite dalla Grecia e dalla Buglaria possono alterare il volume di acqua in movimento dipendentemente dalla presenza di migranti dalla parte turca.

EPA

A Edirne, ogni notte, decine di uomini, donne e bambini, vengono respinti con metodi violentissimi e trovano rifugio in alcune cantine gestite da organizzazioni umanitarie clandestine. Entrati in qualche modo in Grecia e superata la Macedonia l’obiettivo è raggiunge la Bosnia passando attraverso la Serbia: è in assoluto la via che costa meno.

Qui i trafficanti attirano, o portano, i migranti lungo la Drina, fiume che separa per centinaia di chilometri il confine con la Bosnia. Per alcuni la Drina è Ivo Andrić, il ponte, il tempo che scorre come l’acqua, incessante, e porta via tutto. Per i sopravvissuti alla guerra degli anni Novanta la Drina è invece un fiume spaventoso che vive di fantasmi di un conflitto che ancora brucia.

Luoghi come Višegrad, Foča, Bijeljina nei mesi autunnali e invernali si coprono di nebbia, di silenzio, di morte: in queste località, e in molte altre, vennero gettati nel fiume così tanti cadaveri che ancora oggi gli sbarramenti delle dighe quando vengono dragati pescano resti umani.

Sulle sponde

Zvornich è una piccola cittadina, divisa a metà tra Bosnia e Serbia, al cui centro c’è un bellissimo ponte pedonale di ferro che non può essere attraversato dagli stranieri; è una frontiera vera, voluta, nata dopo una guerra sanguinosa qui combattuta senza pietà.

Le sponde della Drina e Zvornich spesso sono coperte di zattere: è il punto più facile per entrare in Bosnia arrivando dalla Serbia, il flusso negli anni passati era così massiccio che si potevano vedere a ogni ora del giorno sbarcare le famiglie. Le autorità bosnianche parlavano di voluto lassismo serbo affinché la Bosnia fosse destabilizzata.

Chi non ha i soldi per prendere un bus che va a Sarajevo e poi sale verso la Croazia, direzione Bihac o Velika Kladusa, può sempre percorrere interamente le sponde della Drina a piedi fino a quando non raggiunge la Sava, il grande il fiume oltre il quale c’è la Croazia e si comincia a sentire il profumo della Germania. Sono luoghi paesaggisticamente stupendi, in cui il turismo fluviale – è una tradizione di queste terre, ma è anche un asset economico molto fiorente in virtù dei tour organizzati che portano in giro facoltosi pescatori e cacciatori – si mescola con la vita e la morte dei migranti. Nelle zone di Bjielina è possibile incrociare i cimiteri dove decine di croci recanti la scritta NN testimoniano la strage che le istituzioni locali, ed europee, evidentemente ritengono necessaria per mettere in sicurezza i confini esterni dell’Unione europea.

Chi non guada la Sava e la Drina corre via terra verso Bihac, ultima tappa prima della Croazia: da qui in avanti grandi fiumi frontiera non ce ne saranno, ma si entra dentro un mondo ostile e rancoroso. Nella prima cittadina che si incontra in Croazia, Karlovac, resistono sui muri i fori delle pallottole della guerra – sono oggetto di cura e restauro – e la scritte anti migranti hanno dimensioni cubitali.

Ma, i fiumi, restano sempre un ostacolo e un pericolo per chi migra: nel 2018 una giovane donna nigeriana, Blessing M., morì affogata poco distante da Briancon lungo la pericolosa rotta alpina che collega Italia e Francia. A finire sotto accusa furono dei gendarmi locali, ma la Corte europea dei diritti umani recentemente non ha accettato di riaprire un caso che le autorità francesi avevano chiuso.

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