- Finora l’autocrate serbo, sul quale era calata la benedizione di Angela Merkel in nome della santa stabilità, ha guardato in tre direzioni. Anche per questo la politica serba verso la Russia è carica di ambiguità.
- Per chi, come Andrej, non sopporta Putin e la sua guerra, Belgrado ha rappresentato un approdo sicuro all’indomani dall’aggressione dell’Ucraina. Le imprese come la sua si sono trasfertite in Serbia con un copione collaudato.
- Ma adesso pure queste società internazionali guardano con sempre maggior sospetto a un trasloco temporaneo in Serbia.
Masha tira fuori dalla borsa il cellulare e fotografa un murales di Putin con gli occhi insanguinati. «Diavolo», lo chiama la donna, volata da San Pietroburgo a Belgrado per fare visita a suo figlio, uno delle decine di migliaia di russi fuggiti in Serbia dopo l’invasione dell’Ucraina. Masha forse non sa di stare fotografando il murales della discordia: Putin eroe o criminale, i due volti dello zar sono i due volti di Belgrado nei confronti della guerra in Ucraina.
Quello che condanna l’invasione russa, ma non si allinea alle sanzioni imposte dall’Ue. Quello che rifiuta di riconoscere l’annessione a Mosca delle quattro regioni ucraine occupate dai russi, ma fa da megafono alla propaganda del Cremlino sui propri media, quasi tutti filo-governativi.Il burattinaio che muove tutti questi fili è il presidente, Aleksandar Vučić , ministro dell’informazione all’epoca di Slobodan Milosevic. Il Giano bifronte della Serbia si muove ora su un crinale delicato.
Il gioco delle tre sedie
Finora l’autocrate serbo, sul quale era calata la benedizione di Angela Merkel in nome della santa stabilità, ha guardato in tre direzioni.Verso l’Ue, a cui Belgrado aspira a far parte, pur con un modello di “democrazia” più vicino a Budapest che non a Bruxelles.
E poi la Russia, che con la Serbia ha profondi legami culturali e religiosi, oltre che energetici, da sempre al suo fianco nella questione del Kosovo, l’ex provincia serba dichiaratasi indipendente nel 2008 che Belgrado continua a considerare parte del suo stato. Infine la Cina, l’alleato dell’est su cui Vučić puntava per ridimensionare Mosca, diventata un ingombro per la sua attività di destabilizzazione nel quadrante balcanico. Che non porta investimenti, ma li fa fuggire.
Da Mosca a Belgrado
«Quale pazzo inizia una guerra d’aggressione nel ventunesimo secolo? Guerra che perdipiù non può vincere». Andrej ora parla da un bar di Belgrado, sprofondato su un divano. Ci è arrivato dopo aver comprato tre diversi biglietti, sola andata: 3mila dollari per esser certo di scappare da «un paese senza futuro», la Russia.
Da Mosca, Andrej è saltato su un aereo dell’Aeroflot, destinazione Istanbul, una settimana dopo l’ordine di Putin di invadere l’Ucraina. «Ci ha colti tutti di sorpresa», dice. Originario dell’Udmurtia, Andrej lavorava a Mosca come ingegnere in una società informatica internazionale. Aveva iniziato a manifestare la sua opposizione al regime di Putin ancor prima dell’annessione della Crimea.
«Era il 2011 e Navalny aveva creato la fondazione anti-corruzione. La Russia non è un paese libero», sottolinea. Per Andrej l’offerta della sua società di andare all’estero per evitare l’onda d’urto delle sanzioni all’indomani della guerra è stata un’opportunità. «Varcato il confine, ho visto il mio orizzonte ampliarsi».
Un paese in bilico
Ma la libertà tanto agognata si è andata a scontrare con un contesto, quello serbo, a metà strada tra Russia ed Europa. In questo angolo dei Balcani, i manifestanti sono scesi in piazza a sostegno sia del popolo russo sia di quello ucraino. Piazze opposte che raccontano un paese venato di contraddizioni.
«La Serbia non è la Russia: qui puoi manifestare liberamente come non potresti fare da noi, dove è proibito anche usarlo, il termine guerra», dice Andrej, che però ammette lo spaesamento di fronte alla popolarità di Putin in Serbia. «È una sensazione strana: i serbi ci accolgono come fossimo fratelli, ma non capiscono che noi stessi siamo vittime di Putin. E forse – dice Andrej – più che un sostegno alla Russia, esprimono rancore verso Usa e Nato, che bombardarono Belgrado».
Aziende e vite nel limbo
Jasmina (pseudonimo) ha aiutato ben tre società informatiche come quella dove lavora Andrej, a trasferirsi in Serbia. Il copione si ripete: una fase di transito in Turchia per qualche settimana, poi il trasloco degli uffici in Serbia.
«La normativa qui è più semplice, per le società straniere: in Turchia devi assumere cinque lavoratori in loco per ogni impiegato. Lo stesso vale per il rilascio dei permessi di soggiorno e di lavoro», dice Jasmina. «Anche sulla tassazione, il governo serbo è andato incontro alle loro esigenze con un decreto».
Società con uffici in Russia continuano ad arrivare in Serbia, sotto la pressione delle sanzioni e da ultimo, della mobilitazione “parziale” annunciata da Putin. Eppure, racconta Jasmina, il clima sta cambiando. Le imprese guardano con sempre maggior sospetto a un trasloco temporaneo in Serbia.
«Il timore - dice - è che il paese possa scivolare in una fase di instabilità, se non di conflitto. Le tensioni in Kosovo della scorsa estate stanno avendo delle ripercussioni sugli investimenti. Non aiuta lo stallo nei negoziati di adesione della Serbia all’Ue».
Dal 24 febbraio blindare i Balcani e scongiurare così un ampliamento del conflitto sul fianco del sud-est Europa è diventato imperativo per Ue e Usa. Andrej non vuol credere di finire di nuovo in trappola. «Cercavo vento di libertà, non di una nuova guerra. Almeno da qui - dice – l’Europa non è poi così lontana».
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