Belgrado è in bilico tra occidente e l’influenza di Mosca. È Washington a tenerla ancorata all’Occidente. Per Tajani i Balcani sono una priorità, e l’Italia è un partner influente. Ma all’Europa manca unità d’intenti
La Serbia è al centro di una battaglia tra influenze geopolitiche. Non è una novità: la questione del Kosovo è ancora aperta, senza considerare i sussulti della Republika Srbska di Bosnia.
Per semplicità si può sintetizzare la questione così: quando l’Occidente favorisce troppo Pristina, allontana i turchi ma lascia che i russi si avvicinino a Belgrado. Quando opera in senso contrario respinge Mosca ma lascia le porte aperte ad Ankara. Varie città del Kosovo si tingono del rosso delle bandiere con la mezza luna durante la festa nazionale turca; abbondano in tutto il paese le imprese e le banche turche. Per la prima volta il comandante della forza Nato a Pristina è un generale turco.
Questione di priorità
Il messaggio kosovaro è chiaro: se l’Europa e gli Usa non li aiutano ad affermare la piena sovranità, il “piano B” è mettersi nelle mani della Turchia, accomunati da una medesima delusione per l’Europa. Ovviamente ciò non piace alla Ue (a Grecia e Cipro in particolare) ma non incanta nemmeno gli americani che hanno vari contenziosi aperti con i turchi.
Tuttavia è noto che in geopolitica si va per priorità: attualmente l’urgenza numero uno è tenere lontani i russi da Belgrado. Per questo si chiude un occhio sui turchi, che ne approfittano vendendo sistemi d’arma sia ai serbi che ai kosovari, non si sa mai…. Belgrado si trova in mezzo a un delicato balletto in cui si mescolano politica estera e interna: non può rompere con i russi («Sono nostri fratelli con lo stesso sangue», ripetono le autorità) a cui sono legati per cultura e religione.
Allo stesso tempo il presidente Aleksandar Vučić non vuole allontanarsi dall’Europa che gli promette l’entrata (i negoziati sono in corso), né rompere con gli americani (con i quali c’è una collaborazione tra servizi). I serbi sanno fin troppo bene che il loro futuro non può essere con Mosca, troppo lontana e soprattutto impelagata in guerre e contese varie: fratelli non del tutto affidabili.
Il ruolo degli Usa
Non a caso l’ambasciatore americano a Belgrado è l’anziano Christopher Hill, colui che aveva negoziato Rambouillet per il dipartimento di Stato. Hill oggi offre una sponda alle doléances serbe e considera le pretese del premier kosovaro Albin Kurti troppo aggressive. Quest’ultimo da parte sua ha messo a segno diversi colpi a suo favore, dimostrando di essere un abile giocatore sull’insidioso tavolo balcanico.
Ha imposto la presenza della sua polizia nella zona dei quattro comuni a maggioranza serba, risolvendo a suo favore la questione delle targhe automobilistiche e della moneta circolante. Non esiste più una divisione territoriale tra Mitroviça nord e sud, con il ponte a fare da divisore: il Kosovo è de facto unificato geograficamente, anche se restano isole serbe soprattutto attorno a certi monasteri. I leader estremisti della Lista serba sono stati arrestati o intimiditi, molte armi sequestrate.
Kurti ha scommesso sul fatto che l’esercito serbo oltreconfine non sarebbe intervenuto a difesa dei serbo-kosovari e ha vinto, almeno finora. In bilico tra Occidente e Russia, la Serbia non se l’è sentita di saltare il fosso ricominciando la guerra. Ma Belgrado ha altre frecce al suo arco, come dimostra l’accordo sul litio con la Ue (anche se i media parlano di Germania, in realtà KFW e Mercedes hanno firmato un altro memorandum), o la vendita di armi agli ucraini che non è un segreto.
Dossier balcanico
Prima però c’era stata la doppia mossa italiana voluta da Antonio Tajani: organizzare per ben due volte il forum delle imprese serbe e italiane a Belgrado e a Trieste. Fin dalla sua istallazione alla Farnesina, Tajani ha posto la priorità balcanica in cima alla lista delle cose da fare. Si è spostato in area varie volte, come da anni non si faceva, riattivando la nostra azione diplomatica. Il contenzioso tra Belgrado e Pristina era stato un dossier trascurato dai governi precedenti.
Oltre il binomio Serbia-Kosovo c’è anche la Bosnia, la Macedonia del Nord e soprattutto l’Albania di Edi Rama. Quest’ultimo è forse il leader più autorevole e ascoltato oggi nei Balcani, e il più vicino a Roma. Il premier albanese ha convinto americani e occidentali (con l’assenso dell’Italia) a non mettere Vučić con le spalle al muro sulle sanzioni alla Russia; ha costruito vari ponti tra Vučić e Kurti, pur non apprezzando le posizioni estreme di quest’ultimo; mantiene una buona relazione con Ankara senza cedere alle continue e insistenti rimostranze di Recep Tayyip Erdoğan sul controllo dell’islam albanese o sui seguaci dell’arcinemico Gulen. Il premier albanese spiega agli occidentali che Vučić non è così forte come sembra e potrebbe cadere per opera di estremisti tuttora in agguato: per il momento – secondo Rama – gli occidentali lo devono considerare come il male minore. I continui tentativi di Bruxelles di mettere d’accordo serbi e kosovari per ora non sono andati a buon fine perché ancora nessuno a Belgrado può permettersi l’esplicito riconoscimento dell’esistenza del Kosovo.
Per le strade della capitale serba campeggiano striscioni con la scritta “La Serbia senza Kosovo è un corpo senza cuore”. Gli sventramenti dei bombardamenti occidentali nel centro di Belgrado (ex ministero della Difesa ad esempio) sono ben visibili e conservati a scopo simbolico. Nessun serbo dimentica la guerra del 1998-99.
Vučić tuttavia frena i nazionalisti di casa propria così come ha messo una sordina alle intemperanze del leader serbo-bosniaco Milorad Dodik e alle sue velleità secessioniste. Ma i serbi aspettano che l’Europa offra loro una sponda definitiva. Dall’altra parte a Pristina c’è un simile sentimento misto di delusione e diffidenza verso l’Occidente. In sintesi i kosovari pensano: «Avete fatto il Kosovo ma non volete completarlo, ci lasciate a mezz’acqua senza riconoscimento internazionale dando ascolto ai serbi che sono un paese autoritario…»
Il risultato della guerra della Nato è questa doppia contrarietà, una lama a doppio taglio dalla quale l’Occidente trova difficile liberarsi. Si tratta di un gioco ambiguo: da un lato l’accordo patrocinato da Bruxelles di inizio 2023 è stato disatteso dai serbi senza conseguenze; dall’altra ciò ha dato la scusa a Kurti per non creare l’associazione dei comuni a maggioranza serba che tutti gli chiedono.
La strada parallela
Una via parallela di dialogo è l’azione messa in campo da monsignor Vincenzo Paglia della Comunità di Sant’Egidio. Avendo già negoziato fin dal tempo di Milosevich e di Rugova, monsignor Paglia è molto noto e rispettato nella regione: Rama, Vučić e Kurti lo ricevono continuamente, assieme alla delegazione di Sant’Egidio.
La scommessa di monsignor Paglia è di passare attraverso il canale religioso, riavvicinando la chiesa serba (di Belgrado e del Kosovo) e le autorità kosovare (in specie il premier Kurti), allo scopo di ottenere maggiore libertà per il patriarca Porfirje ma anche andar oltre lo schema nazionalista chiesa-stato. Difatti i fedeli serbi si trovano oggi non solo in Serbia, ma anche in Bosnia, Montenegro e Kosovo. Per ora nessuna delle parti ha detto no, e il delicato dialogo prosegue, con l’appoggio dell’Italia e di papa Francesco.
Tutto il quadrante balcanico è strategico per Roma sia in termini economici che politici. Francia e Germania proseguono le loro iniziative e Parigi cerca di vendere aerei da guerra a Belgrado. Sarebbe una svolta rispetto all’armamento russo finora in uso. L’Italia è tuttavia il partner più influente sul lungo termine. In ogni caso, se Berlino fa passi avanti in termini economici, ciò va a vantaggio anche di Roma, visti gli stretti legami di filiera tra le manifatture dei due paesi. Il nocciolo del problema per l’Europa è che si perseguono ancora troppo agende multilaterali in pubblico ma bilaterali in privato, rendendo la normalizzazione un traguardo difficile da raggiungere.
Così i due protagonisti (ma anche i turchi) possono giocare un mediatore contro l’altro. Nei Balcani occorrerebbe una maggior unità di intenti per anticipare gli eventi mediante una visione strategica, allo scopo di non rimanere sorpresi quando gli antichi demoni ultranazionalisti tentano di tornare in superficie.
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