Il capo della Cia ha visitato Bosnia, Serbia e Kosovo, scenari che preoccupano la Casa Bianca. Il separatismo serbo, la rabbi a a Pristina, le miniere di litio e l’illusione di “democratizzare” Vucic
Insolita. Allarmante. Preventiva. All’indomani della visita in Bosnia-Erzegovina, Serbia e Kosovo del direttore della Cia, William Burns, i Balcani si interrogano sul senso di una missione ancora avvolta nel mistero. Prima di volare in Egitto per proseguire i negoziati per un cessate il fuoco a Gaza, il capo dell’intelligence americana ha avuto una girandola di incontri con funzionari e politici dei tre paesi balcanici, infiammati da una retorica nazionalista che ha superato il livello di guardia.
A precedere Burns, l’ambasciatore Boris Ruge, assistente del segretario generale per gli Affari politici e la sicurezza della Nato. Stesso tour e presumibilmente stessa agenda. Se poco o nulla è trapelato dalle due missioni, è palpabile la preoccupazione che agita Washington e Bruxelles per quanto sta accadendo nei due nodi irrisolti delle guerre degli anni Novanta, la Bosnia-Erzegovina e il Kosovo.
Con la regia della Serbia, sorvegliata speciale, e il suo uomo forte, Aleksandar Vucic, maestro di equilibrismo tra Est e Ovest, considerato dall'occidente un elemento chiave per risolvere conflitti congelati nella regione e sottrarla così all'influenza di Russia e Cina, specie dopo l'invasione russa dell'Ucraina.
Ragionamento corretto, metodo fallimentare. Stati Uniti e Ue si sono lasciati tentare dalle sirene di Belgrado - dalle munizioni inviate sottobanco a Kiev allo sfruttamento delle riserve di litio alla stretta sull'immigrazione - chiudendo un occhio sulla svolta autoritaria impressa da Vucic al paese e sul ruolo svolto dalla Serbia nelle crisi che ciclicamente attraversano la regione.
Tutti alla corte di re Vucic, quindi. Dopo il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, recatosi a Belgrado a luglio, ora è il turno del presidente francese, Emmanuel Macron, atteso nella capitale serba domani per discutere di nucleare, intelligenza artificiale e soprattutto dei piani della Serbia per l'acquisto di caccia militari Rafale. A completare il quadro anche un'imminente visita, per ora non confermata, della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.
I nodi invece restano. In Kosovo, il culmine è stato nel maggio dello scorso anno quando novantatré soldati della missione Nato in Kosovo (Kfor) sono rimasti feriti in uno scontro con dei manifestanti serbi che protestavano contro l’insediamento di sindaci albanesi nei comuni del nord del paese a maggioranza serba.
E pochi mesi più tardi, sempre il nord del Kosovo è stato teatro di un attentato terroristico orchestrato da una formazione di paramilitari serbi capeggiata da Milan Radoicic, numero due della Lista serba, partito che opera per conto della Serbia in Kosovo. Il tutto senza conseguenze per Belgrado. Pristina, al contrario, è stata più volte redarguita e sanzionata per aver intrapreso azioni non coordinate con gli alleati.
Il ponte di Mitrovica
Sordo ai loro richiami, il premier kosovaro, Albin Kurti, ha proseguito con le sue azioni per portare il nord del paese sotto il controllo delle autorità di Pristina. Dopo il divieto di circolazione del dinaro serbo, valuta con cui Belgrado paga stipendi e pensioni ai serbi del Kosovo, Kurti ha annunciato la riapertura del ponte di Mitrovica, che collega i due settori della città, uno a nord abitato da serbi e l'altro a sud con popolazione di etnia albanese.
Un ponte, quello di Mitrovica, chiuso al traffico dal 2011 e pattugliato da carabinieri italiani inquadrati nella Kfor, simbolo delle divisioni etniche del paese. Risultato: proteste nella comunità serba, forte irritazione di Nato, Usa e Ue, rinforzi dei presidi sul ponte.
Nervi tesi anche in Bosnia-Erzegovina, l’altro anello debole dei Balcani, dove le divisioni etniche, frutto avvelenato del dopoguerra, non fanno che approfondirsi. Il fattore maggiore di destabilizzazione porta il nome di Milorad Dodik, leader della Repubblica serba di Bosnia (una delle due entità costitutive del paese). La «ventata d’aria fresca» - come ebbe a ribattezzarlo l’ex segretaria di Stato Usa, Madeleine Albright - è diventato nel tempo poco più che un burattino nelle mani di Vladimir Putin e di Viktor Orbán.
E negli ultimi mesi, dopo la vergognosa campagna condotta con l’aiuto di Vucic, contro la risoluzione Onu sul genocidio di Srebrenica, è tornato a premere sull’accelerazione della secessione della Repubblica serba dalla Bosnia, annunciando un accordo per la “separazione pacifica” da sottoporre a Sarajevo.
Rio Tinto
La stessa Serbia è attraversata dalle proteste contro il redivivo progetto di Rio Tinto per lo sfruttamento dei giacimenti di litio. Un esercizio di democrazia fatto passare da Vucic, e da Mosca, come una rivoluzione colorata, una “nuova Maidan” per rovesciare il suo regime. È in questo ginepraio che si colloca la visita di Burns, messaggero di un duro monito agli attori della destabilizzazione per impedire il precipitare degli eventi in uno scenario internazionale sempre più incandescente.
Un primo effetto la missione del capo della Cia lo ha sortito. Immediato (e grottesco) il dietrofront di Dodik: senza neppure aver incontrato Burns, ha cinguettato che «la secessione non è mai stata la nostra politica» scatenando una valanga di insulti da parte dei nazionalisti. Ma sullo sfondo resta la minaccia alimentata da una Russia per giunta umiliata dallo smacco subìto con l'offensiva ucraina a Kursk.
In un momento, poi, in cui il fianco occidentale è scoperto, con l’Ue alle prese con l’insediamento della nuova Commissione e gli Usa impegnati in una serrata campagna per le presidenziali, oltre che nell'estenuante negoziato per impedire un'escalation in Medio Oriente. Un nuovo fronte nei Balcani non è un'opzione.
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