Il 5 maggio del 2017 – che data per la Francia! – chi scrive ebbe il piccolo privilegio di assistere a un ristretto incontro tra il candidato presidente della République Emmanuel Macron e alcuni rappresentanti della stampa. Due giorni dopo ci sarebbe stato il ballottaggio con Marine Le Pen. Allora era ancora forte la pregiudiziale antifascista, c'erano pochi dubbi sull'esito della contesa. Senza scaramanzie, Macron parlava già da inquilino dell'Eliseo. Era il vento nuovo, il giovane non ancora quarantenne che aveva prosciugato i partiti tradizionali, il baluardo sicuro contro l'estrema destra. E tuttavia c'era un tarlo, ricavato dalla sua biografia, che lasciava inquieti sulla politica che avrebbe perseguito.
«Ricco a sufficienza»
Veniva non semplicemente dall'élite ma dalla crema dell'élite, gli studi a Sciences Po e all'Ena, il ruolo di prestigio nella banca Rothschild. Quali provvedimenti avrebbe adottato in materia economica? Aveva debiti da saldare con il beau monde dove era cresciuto? Sorridente, rassicurante, rispose guardandomi fisso negli occhi come chi reclama fiducia: «Proprio perché sono già diventato ricco a sufficienza sono libero da ogni vincolo e potrò esercitare il mandato senza condizionamenti».Sembrava sincero.
Forse lo era davvero, ma c'era un equivoco. A dispetto di un passato socialista e di pubbliche dichiarazioni a favore dell'equità, della redistribuzione del reddito (addirittura!), dell'attenzione alle classi meno abbienti, le sue ricette economiche per raggiungere gli scopi si rivelarono subito di netto impianto liberista, convinto com'era che favorire le classi alte avrebbe prodotto più prosperità per tutti.
Sbagliato. Una delle prime leggi, molto contestata, fu l'abolizione della tassa sulle grandi fortune voluta da Mitterrand negli anni Ottanta (circa 4 miliardi di euro di incassi per l'erario), sperava che quel denaro risparmiato sarebbe stato reinvestito e avrebbe creato posti di lavoro: finì solo per gonfiare le tasche dei beneficiati.
Liberismo e rancore
La Francia che usciva dagli anni tremendi degli attentati terroristici più cruenti, la Francia reduce come tutti dalla crisi economica iniziata nel 2008, la Francia della fiducia totale nello Stato e nelle istituzioni, scopriva a mano a mano l'erosione del welfare, i tagli al budget che hanno colpito soprattutto le periferie e le campagne con la progressiva scomparsa degli ospedali di territorio, le caserme della gendarmerie, le linee ferroviarie secondarie.
Cresceva il malcontento e il rancore verso le città, persino verso Parigi l'intoccabile, Parigi l'ovvio vanto della nazione tutta. I costi della transizione ecologica voluta a tutti i costi da Macron, esemplificati dall'aumento del prezzo del gasolio, furono la scintilla per la rivolta dei gilet gialli, inaccettabile nelle forma e screditata dalle violenze di piazza. Ma i metodi offuscavano un problema reale.
I costi avrebbero influito su coloro per cui l'automobile è una necessità, non sui cittadini che hanno a disposizione i metrò e i treni ad alta velocità. Alla fine il presidente fu obbligato a sconfessarsi e congelare gli aumenti. Lasciando però il retrogusto amaro della sua tendenza a favorire i vincitori della globalizzazione a danno dei ceti popolari. La forbice ricchezza-povertà si allargava continuamente. Le statistiche, implacabili, lo confermano: la Francia è il terzo paese al mondo, dopo Stati Uniti e Cina, per numero di milionari in dollari, sono due milioni e ottocentomila.
L’ultima goccia
La riforma delle pensioni con l'innalzamento dell'età a 64 anni, benché oggettivamente necessaria, è stata la classica goccia che fatto traboccare il vaso, accentuato la parabola già molto discendente del macronismo. Contestata con imponenti manifestazioni da sinistra e da destra, da gente che si chiedeva perché i sacrifici inevitabili ricadevano sempre sulle stesse spalle. Macron non trovò altra soluzione che buttarsi a destra.
Repressione dura della polizia nelle piazze, stretta con faccia feroce sull'altro tema sensibile dell'immigrazione. Nell'illusione di poter sottrarre terreno al Rassemblement national proprio sulle sue battaglie-simbolo e dimenticandosi che in politica tra l'originale e la sua imitazione di solito l'elettore sceglie l'originale.
Così siamo arrivati al crepuscolo di una campagna elettorale giocata sulla demonizzazione sia di Marine Le Pen sia di Jean-Luc Mélenchon, il tribuno leader della France Insoumise (ma più del secondo che della prima). Nella speranza del presidente di ripetere il colpo vincente del moderatismo del 2017. Errore, quella di sette anni fa fu una parentesi che si chiude. La Francia torna ciò che è sempre stata: un paese di forte radicalità.
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