«Ero in Kyrgyzstan quindi quando Trump ha vinto non ho bevuto champagne ma vodka». Viktor Orbán accoglie a Budapest gli altri leader europei con la spavalderia di chi ha vinto una scommessa. Con la presidenza di turno spillata sulla giacca, non si limita a insistere sul «cessate il fuoco» in Ucraina – lui è quello dei viaggi al Cremlino – ma lancia pure affondi contro i giudici: l’ostacolo al cambiamento, «anche in Italia», è l’«attivismo giudiziario», dice; e si fa fotografare nel baciamano a Giorgia Meloni.

L’affinità tra i due non si è mai davvero spezzata e ora gli equilibri (come le telefonate con Trump) si orientano a loro favore; ma non a favore dell’integrazione europea, checché ne dica Ursula von der Leyen. La presidente della Commissione europea ha parlato con Trump al telefono sostenendo che si lavori per la «stabilità». Il quadretto budapestino fotografa tutt’altro.

Un quadro instabile

Centinaia di bicchieri di vetro, che evocano il brindisi orbaniano, e tartine a volontà, come se l’Ungheria non fosse uno dei paesi più in difficoltà economica di tutta l’Ue: l’apparenza inganna sempre, e quando è Orbán ad apparecchiarla, inganna particolarmente.

Non ci sono molte ragioni per celebrare: in questi giorni di vertici, lo stadio di calcio di Budapest – la Puskás Aréna – è diventato per i leader europei una sorta di grande camera di decompressione. Formulano richiami all’unità, agli interessi europei, alla cooperazione transatlantica, alla difesa comune. Simulano una reazione controllata alla vittoria di Trump.

Ma di controllato non c’è nulla, e il fatto che Olaf Scholz non abbia potuto arrivare sùbito a Budapest lo manifesta: l’agenda dei vertici si intreccia con gli scossoni internazionali. Questo giovedì l’agenda prevedeva l’incontro della “comunità politica europea” (stati membri e in via di adesione, Regno Unito, Turchia...), raggruppata da Orbán allo stadio.

Poi la cena per ragionare del cambio in Usa. E la presenza di Mario Draghi, in vista del suo intervento al Consiglio europeo informale di venerdì, con la competitività come tema. I piani solidi si fermano qui: la vittoria di Trump è una miccia su un progetto di integrazione europea che è una prateria disseccata. Come si ragiona su un piano “competitivo” di investimenti se va in tilt la Germania?

Dai tempi in cui Draghi era premier, e il vertice informale era quello di Versailles, spostare Berlino sull’indebitamento comune è arduo; con la Cdu che ha fretta di trarre profitto dal fallimento della coalizione semaforo, sarà quasi impossibile. «Farò ciò che posso per impedire altro debito comune», tuona Friedrich Merz da quando il report Draghi è pubblico. In tutto questo, con Trump che sbaraglia, il comparto industriale tedesco teme il mix di dazi e scontro con la Cina.

Tutto è concatenato, anche le crisi: persino Orbán, che ha scommesso su Trump in nome di una sintonia tra illiberali e nella speranza di un ambasciatore Usa morbido, avrà bisogno del suo più allenato pragmatismo per adattarsi ai colpi all’automotive tedesco (a cui è legato) e alla Cina (di cui è avamposto in Ue, fabbriche di batterie comprese). «Noi topolini dobbiamo saper correre in fretta», dice lui stesso.

Intanto l’Ue, che fino a due anni fa – seguendo la metafora di Josep Borrell – si riteneva «un giardino ordinato con la giungla attorno», cede ormai alla caotica legge della giungla: Macron da Budapest ha detto che «il mondo si divide in erbivori e carnivori, se restiamo erbivori ci faremo mangiare».

L’Ue slitta dalla rule of law all’”homo homini lupus”, quel realismo antropologico teorizzato da Hans Morgenthau e sintonizzato con la nuova Casa Bianca.

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