L’ultima freccia è partita dall’arco dei socialisti, ed è avvelenata: la minaccia è di non dare la fiducia alla prossima Commissione europea se non ci sarà un riequilibrio. L’avvertimento scatta perché Ursula von der Leyen non starebbe rispettando il patto concordato questa estate per il bis. E tra i motivi dell’allerta c’è la scelta di «spingere i Conservatori» – ovvero la famiglia politica di Giorgia Meloni – «fin nel cuore della Commissione europea». Il «cuore» sarebbe una vicepresidenza esecutiva con un portafoglio invidiabile, e «i Conservatori» sono incarnati in questo caso dal pontiere europeo di Meloni, il ministro Raffaele Fitto.

Su questo nome e sul suo portafoglio si erano già in precedenza indispettiti i liberali europei, pensando anche al margine di manovra da garantire al commissario francese, Thierry Breton; una somma di fastidi politici, di mosse e contromosse che ha fatto deflagrare la nuova squadra prima ancora di essere annunciata. In teoria la presentazione avrebbe dovuto svolgersi questo mercoledì mattina, ma alla vigilia è stato annunciato il rinvio a martedì prossimo.

Il portavoce di von der Leyen adduce motivazioni procedurali legate all’iter di nomina della Slovenia, ed è chiaro che le questioni procedurali ci sono. Il punto è che si affollano anche le questioni politiche: il ritardo si trasforma in uno spazio di manovra utile per segnalare alla presidente il malcontento sui portafogli ventilati sulla stampa, e sollecitare così un cambio di piani.

L’innesco del caso Fitto

Se c’è un nome sul quale il malcontento si concentra, è appunto quello di Raffaele Fitto, o meglio, quello di Giorgia Meloni.

Già circa una settimana fa il disappunto era stato fatto filtrare dal versante liberale. Valérie Hayer, capolista macroniana alle europee e tuttora capogruppo di Renew, aveva riferito a von der Leyen la «preoccupazione» per la casella Fitto in Commissione europea. Preoccupazione che si basava sulle indiscrezioni arrivate tramite la stampa, di un ruolo economico e di una vicepresidenza esecutiva per il ministro meloniano; c’erano inoltre le indiscrezioni di corridoio, che vedevano Fitto associato alla competitività.

Per i liberali – o per meglio dire, per i macroniani – la competitività è una delega chiave, e il commissario francese Thierry Breton ambisce a gestire il settore industriale con il più ampio margine di manovra possibile. La «preoccupazione» di Hayer si è agganciata ad ogni modo alla provenienza politica di Fitto: una formazione di estrema destra (Ecr) e un governo Meloni che Renew ha sempre detto in questi mesi di voler tenere disancorato dalla maggioranza.

Nelle ultime ore sono stati i socialisti a dichiarare, in forma più radicale e ampia, il proprio malcontento per le mosse di von der Leyen. In una nota composta assieme al presidente del Partito socialista europeo, Iratxe García Pérez, la capogruppo socialista all’Europarlamento, ha citato «il fatto di aver spinto attivamente l’Ecr fin nel cuore della Commissione» tra le ragioni che possono far perdere a von der Leyen «il supporto progressista».

Il capodelegazione Pd in Ue, Nicola Zingaretti, ha mitigato la faccenda per evitare che apparisse come un boicottaggio alle deleghe per l’Italia, e ha sfidato Fitto a mostrare in audizione che ha piani consoni all’accordo «europeista» che regge la maggioranza.

L’irritazione dei progressisti

Ma a livello europeo, il clima è tutt’altro che mite: non a caso questo martedì pomeriggio Meloni ha rinsaldato il filo con Draghi (anzitutto quello telefonico) per poi invitarlo a Chigi «per un confronto sul suo rapporto».

Dietro l’esternazione di García Pérez – fedelissima di Pedro Sánchez – e di Stefan Löfven c’è tutto il fastidio per la realpolitik di von der Leyen, che – ragionano nel Pse – in estate ha cercato (e ottenuto) l’appoggio dei socialisti, in primis Olaf Scholz, prima in Consiglio e poi in Europarlamento; ma che ottenuta la riconferma si riassesta a destra, persino riaccreditando e favorendo Meloni.

Tra i rimpianti dei socialisti c’è anche il mancato ingresso di Nicolas Schmit – il loro spitzenkandidat – nella ventura Commissione; e se è vero che è stato il Lussemburgo a non nominarlo, è vero pure che von der Leyen aveva lasciato intendere che avrebbe lavorato perché Schmit fosse nella squadra. La presidente quando vuole influisce, e infatti in questi giorni ha puntato su alcuni stati membri (prevalentemente di piccole dimensioni e non a guida Ppe) perché rimpiazzassero il loro nome maschile con uno femminile. Proprio a questa “opera di persuasione” si deve il cambio di nome sloveno, con il ritiro di Tomaž Vesel e la candidatura di Marta Kos; l’ok del governo c’è ma manca il passaggio parlamentare, che avverrà venerdì e che giustifica il rinvio dell’annuncio di von der Leyen.

Sapremo quindi da martedì se il disegno della futura squadra – sicuramente sbilanciata a destra – terrà conto delle rimostranze progressiste, magari rinforzando i portafogli dei socialisti di spicco (la spagnola Teresa Ribera), magari coinvolgendo Schmit con un altro incarico, o chissà, rendendo meno palese la ritrovata sintonia con Meloni, che rischia di infastidire pure i grandi azionisti del Ppe (pare che per il tuskiano Piotr Serafin non sia prevista al momento una vicepresidenza esecutiva...).

Se von der Leyen non lavorerà a un punto di equilibrio, la faccenda potrebbe deflagrare tra audizioni e voto di fiducia. E pensare che il nuovo mandato doveva iniziare all’insegna della «rapidità», parola scelta come bandiera da Draghi lunedì. Peccato che poi ci si sia messa di mezzo la realtà, anzi la realpolitik della presidente.

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