Se Matteo Salvini sperava di cavarsela con qualche naso storto tra i leghisti, le reazioni di questo sabato – non solo esponenti di opposizione ma pure società civile, associazioni e la stessa Cei – mostrano che candidare il generale Vannacci può rivelarsi un boomerang.

Effetto Vannacci

A scatenare il putiferio è stata l’uscita del generale che ha invocato classi separate per disabili: «La scuola deve essere dura e selettiva, un disabile non lo metterei certo a correre con uno che fa il record dei cento metri» e così via.

In un crescendo di indignazione, con associazioni che rivendicavano Costituzione e convenzioni Onu, è intervenuto anche monsignor Francesco Savino, il vicepresidente della Conferenza episcopale italiana: «Le affermazioni sulle classi separate ci riportano ai periodi più bui della nostra storia. Mi permetto di dire, con Papa Francesco, che l'inclusione è segno di civiltà».

A quel punto “fonti della Lega” hanno iniziato a sperticarsi in un: «Si candida da indipendente». Certo, non da tesserato, ma pur sempre in lista in tutti i collegi. Poi si è smarcato Giancarlo Giorgetti: «Non condivido» l’uscita di Vannacci, ha detto, ribadendo la predilezione per «i candidati dei territori» come sta facendo nella Lega tutta una fronda di perplessi.

Intanto i meloniani – dai ministri, come Eugenia Roccella, ai fedelissimi, come Giovanni Donzelli – si sono affrettati a marcare la distanza. Vannacci, e per proprietà transitiva Salvini, non avrebbe potuto lanciare un assist migliore a Giorgia Meloni, che questa domenica alla conferenza programmatica del suo partito a Pescara si tuffa ufficialmente nelle europee (e nelle liste). E che ha trovato un estremo più estremo dei Fratelli d’Italia, così da poter rinsaldare in Ue l’immagine che si è cucita addosso: quella della più moderata e dialogante di tutta la classe sovranista.

Un po’ come lo xenofobo Éric Zemmour aveva aiutato Marine Le Pen nel suo processo di normalizzazione, Vannacci facilita quello di Meloni. Mussolini? «Statista», per il generale.

L’annuncio di Meloni

(La premier. Foto Ansa)

Va a finire che la mossa rischiatutto di Salvini finirà per aiutare Meloni nella sua strategia di medio periodo: mostrarsi «credibile», come ha detto da Pescara Raffaele Fitto, o «non marziana», come aveva detto lei stessa nel primo viaggio da premier a Bruxelles. Il principale tessitore di questa strategia è proprio l’ex democristiano Fitto, il più quotato dei meloniani come futuro commissario Ue, magari con delega alle politiche di coesione, come suggerisce il fatto che questo sabato alla convention di FdI lui su questo abbia rivendicato un protagonismo in Europa.

Tutto è pronto per il mezzogiorno di fuoco di questa domenica, quando Meloni interviene, ed è previsto che annunci la sua presenza in lista per giugno. Nei corridoi di Bruxelles e sui voli per Strasburgo i Fratelli d’Europa vociferavano già da mesi che «la capa» avrebbe messo il suo nome acchiappa-voti sulla scheda; ma la più gran campagna elettorale è quella ancora non dichiarata.

Con la strategia duplice che la caratterizza da inizio mandato, Meloni aspira a essere l’una e l’altra: la premier sedicente pragmatica e moderata, e pure la leader di un partito di estrema destra i cui esponenti – come questo sabato a Pescara – aizzano gli elettori con la solita paccottiglia ideologica postfascista.

La doppiezza è la tattica meloniana prediletta: in Ue vuole presentarsi come «credibile»; e a Pescara gli attacchi a chi dissente (dagli studenti a Greta Thunberg) sono lingua corrente.

L’intolleranza al dissenso

Gli scrosci di applausi in sala questo sabato a Pescara per Tommaso Foti, capogruppo di FdI alla Camera, quando dice che «è una settimana che ci hanno nauseato con l’anti» – cioè con l’antifascismo – segnano i tentativi dei vertici del partito di connettersi al proprio elettorato postfascista.

E se c’è un tratto comune in molti interventi della stessa giornata, è una pronunciata intolleranza per chi dissente. Un’altra frase di Foti – «Io mi chiedo se era meglio mandarli all’università o mandarli a zappare», riferita agli studenti che protestano contro il massacro a Gaza – ha fatto scalpore. Il sottosegretario all’ Interno Emanuele Prisco ha rivendicato – questo sabato dal palco del suo partito – «la buona gestione delle piazze da parte delle nostre forze dell’ordine», pur consapevole che persino il presidente della Repubblica si sia sentito in dovere di intervenire stigmatizzando le manganellate contro gli studenti a Pisa. «Non capisco, in momenti di tensione internazionale, come le altre forze politiche possano mettersi a fare ulteriori casini».

Frasi pronunciate a una convention, ma come esponente delle istituzioni. Un equilibrio scivoloso da gestire anche per Meloni, che è premier, ma sui social attacca gli intellettuali come Scurati, nei comizi per le regionali ha attaccato giornali e giornalisti, e «in veste di privata cittadina» li porta in tribunale.

Famiglia, partito, istituzione

Da questa domenica ci sarà l’ulteriore veste di candidata di facciata. E a proposito di vesti, ha fatto scattare la polemica la maglietta di FdI esibita questo sabato nella foto di gruppo pescarese da Stefano Pontecorvo e Bruno Frattasi.

Pontecorvo è presidente di Leonardo, e nella foto è con Guido Crosetto, ministro della Difesa nonché cofondatore del partito. Proprio l’inchiesta di Domani sui milioni di euro che Crosetto ha incassato da Leonardo come consulente prima di diventare ministro, e sul conflitto di interessi, ha innescato la caccia alle fonti dei giornalisti.

Frattasi dirige l’agenzia per la cybersicurezza nazionale; proprio poche settimane fa il garante per la privacy aveva lanciato l’allerta per la scelta del governo Meloni di affidare il dossier dell’intelligenza artificiale a un’agenzia che risponde a Chigi. A questi livelli intrecciati, si aggiunge ora anche la maglietta di partito sbandierata questo sabato. 

Non è un caso isolato: nella primavera 2022 l’allora direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano interveniva alla convention di FdI; pochi mesi dopo è diventato il ministro della Cultura meloniano. Con la sorella Arianna messa a guida del partito, o un cognato ministro, nell’èra Meloni distinguere tra famiglia, partito e istituzioni può essere arduo.

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