Comunque vada il voto di domenica, Viktor Orbán sta già costruendo la sua realtà parallela. Per farlo si appoggia a una rete internazionale che passa per gli ultraconservatori di Washington, così come per gli ambienti della destra italiana, gli antiabortisti di Varsavia e altre capitali europee, fino a lambire con le varie connessioni anche Mosca. Un network di think tank conservatori partecipa a un progetto che ha origine da un “centro per i diritti umani” budapestino che è finanziato dal governo. Il direttore, Miklós Szánthó, dirige anche Kesma, che è il più grande conglomerato mediatico, ovviamente filogovernativo, del paese. Come Donald Trump, di cui è sempre stato sostenitore e che avrebbe voluto a Budapest per la sua campagna, il premier ungherese avrà una sua narrativa sull’andamento delle elezioni.

Un voto in bilico

Gli ultimi sondaggi registrano un margine di distanza di pochi punti percentuali tra il premier attuale, in vantaggio, e il leader dell’opposizione unita, Péter Márki-Zay. Il fatto che tutti i partiti avversari abbiano fatto fronte comune rende queste elezioni più difficili delle precedenti, per il premier. Ma Orbán ha dalla sua parte un sistema plasmato a suo favore. Il potere e i media sono ben saldi nelle mani di chi è già al governo, il voto degli ungheresi che vivono all’estero si svolge in situazioni anomale e nella stessa Ungheria un provvedimento orbaniano recente influisce sulla composizione del voto. Per tutti questi motivi, le elezioni parlamentari ungheresi del 3 aprile sono oggetto di monitoraggio da parte dell’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione in Europa (Osce), che durante la sua missione di gennaio ha raccolto tutte le sue perplessità sulle condizioni in cui si svolge il voto. «L’ecosistema mediatico è sempre più concentrato in poche mani», dice l’Ufficio istituzioni democratiche e diritti umani dell’Osce nel report di quella missione. «La società civile lamenta la disparità di spazi per la campagna». E poi ci sono tutti i provvedimenti che hanno plasmato le modalità di voto. Anzitutto, lo stato di emergenza è stato esteso fino a giugno, e consente misure straordinarie. Poi, a novembre 2021 è stata emendata una legge in modo da facilitare i cambi di residenza, il che consente di concentrare i voti amici dove è più utile per espugnare i collegi contesi.

Minoranze egemonizzate

C’è poi il ruolo cruciale delle comunità ungheresi all’estero: è cruciale perché è in grado di spostare l’esito del voto, e lo è anche per le condizioni nelle quali si sta svolgendo. Boróka Parászka, giornalista di Hvg che sta indagando sulle modalità di questo voto in Transilvania, racconta che «tutto il processo di voto avviene in un limbo fuori dalla legge e dal controllo imparziale». La premessa è che, su impulso proprio del governo Orbán, che ha promosso la doppia cittadinanza, dal 2012 le minoranze fuori dai confini possono partecipare alle elezioni ungheresi. Alle scorse elezioni hanno votato oltre 200mila persone, stavolta ci si aspetta che il numero raddoppi; per una popolazione che in Ungheria non arriva a dieci milioni, si tratta di un ventaglio di voti che può essere determinante. Nel 2018 la quasi totalità dei voti delle minoranze (circa il 96 per cento) è andata al partito del premier, riconosciuto come il promotore della doppia cittadinanza e prodigo di investimenti in queste aree. «In teoria si può votare per posta, ma c’è stata una campagna di discredito verso i servizi postali, sia contro quelli romeni che serbi», dice Boróka Parászka. Dunque «sono gli attivisti di partito che vanno casa per casa a raccogliere i voti». Quali partiti? «In Romania tutte le organizzazioni politiche ungheresi funzionanti sono alleate di Fidesz, e sono loro a mandare gli attivisti». C’è controllo e trasparenza su questo processo? «No, fuori dal territorio nazionale e dalle sue leggi si svolge in una sorta di limbo giuridico», dice Boróka Parászka.

La missione parallela

In questo contesto, con una missione Osce in corso, Orbán ha deciso di imbastire una missione (e quindi una narrazione) parallela, coinvolgendo una rete internazionale di think tank amici. Il premier ungherese agisce per via indiretta: tutto parte da un ente esterno, il Center for fundamental rights (Alapjogokért Központ), che però è attivamente finanziato e supportato da Fidesz. Questo centro budapestino si dipinge come istituto di ricerca e per i diritti, ma ricostruendo i documenti ad esso inerenti viene fuori che «la sua creazione è stata guidata dalla consapevolezza che è necessario fornire risposte professionali fondate alle critiche internazionali sulla politica dell’Ungheria». Il Center for fundamental rights, sotto l’abito delle competenze giuridiche e culturali, in passato ha già attaccato i report di Amnesty e Human Rights Watch dai quali emergevano le criticità del governo orbaniano; e ha difeso le politiche antimigranti dell’Ungheria. Ora organizza una missione di osservazione elettorale parallela a quella Osce. Con un eccezionale cortocircuito, il direttore del “centro per i diritti” dirige anche il conglomerato mediatico del paese, Kesma.

Connessioni internazionali

Il centro di Budapest ha invitato una rete di think tank europei e statunitensi per questa missione. Da Washington c’è Judicial Watch, organizzazione conservatrice che in passato ha preso di mira tanto il cambiamento climatico quanto le amministrazioni dem. Dall’Italia partecipa Nazione Futura, culturalmente vicina a Fratelli d’Italia. «Siamo l’unica realtà italiana a realizzare questa importante attività, è una missione internazionale riconosciuta dalle autorità ungheresi», dice il presidente, Francesco Giubilei, autore anche di un libro su Giorgia Meloni. E che spiega: «Abbiamo un badge per accedere ai seggi, partecipiamo anche a seminari, come quello di oggi sulle politiche per la famiglia ungheresi».

Antiabortisti e Mosca

Da Varsavia arriva apposta per la missione Ordo Iuris, l’ organizzazione pro life che fa parte del network del Congresso mondiale delle famiglie e che esercita la sua pressione sul governo conservatore polacco su temi come l’aborto, i diritti Lgbt, la convenzione di Istanbul, ovviamente per opporvisi. Jarosław Kaczyński, il leader ultracattolico del Pis, ha ammesso che è stata proprio questa organizzazione a ispirarlo, quando nel 2016 il partito ha provato a inasprire il divieto di aborto. Sfruttando le competenze giuridiche dei propri membri, Ordo Iuris offre affilate argomentazioni a sostegno di Polexit e cioè della supremazia della giurisprudenza polacca su quella dell’Ue. Questo think tank polacco ha connessioni, anche finanziarie, con Mosca. Nel 2016 ad esempio ha ricevuto soldi da un’organizzazione spagnola, CitizenGo, sponsorizzata dall’oligarca russo Konstantin Malofeev.

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