L’ex ministro tedesco delle Finanze apprezzerebbe la non-riforma del Patto di stabilità imposta dal suo successore Lindner. Ormai i fallimenti dell’austerity sono evidenti a tutti, eppure l’Europa...
Wolfgang Schäuble è stato una figura centrale del panorama politico tedesco. Parlamentare del partito di centrodestra dei Democratici cristiani dal 1972 alla sua morte, martedì sera all’età di 81 anni, fu vicinissimo al cancelliere Helmut Kohl e, da avvocato, uno dei negoziatori del trattato con cui si attuò la riunificazione con la Germania dell’Est.
Ma è con Angela Merkel cancelliera che Schäuble diviene noto fuori dai confini nazionali. Per qualche anno ministro dell’Interno, è nominato ministro delle Finanze nel 2009, poche settimane prima delle rivelazioni sullo stato delle finanze pubbliche greche che danno il via alla crisi del debito sovrano.
La dottrina ordoliberale
Da allora è una delle figure centrali della calamitosa gestione della crisi. Convinto europeista, è tuttavia sempre stato persuaso, in omaggio alla dottrina ordoliberale, che l’integrazione potesse essere ottenuta solo imbrigliando l’economia europea in un fitto reticolo di regole che garantissero la parsimonia pubblica e privata necessaria a rendere l’Ue competitiva sui mercati mondiali.
Schäuble è stato l’alfiere principale della “dottrina di Berlino” (o di Bruxelles-Francoforte, essendo fatta propria dai vertici della Commissione europea e dalla Bce dell’epoca) che attribuiva la crisi del debito alle finanze pubbliche allegre e alla mancanza di riforme dei paesi della cosiddetta “periferia” dell’eurozona. Una lettura della crisi che imponeva i “compiti a casa” (austerità e riforme strutturali) ai paesi in crisi: è all’intransigenza di Schäuble, spalleggiato da Merkel, dalla Commissione e dalla Bce (e a volte contro il Fondo monetario, spesso più pragmatico), che si devono le condizioni draconiane imposte ai governi greci in cambio dell’assistenza finanziaria della cosiddetta Troika.
In quegli anni lui e l’allora presidente della Bce Jean-Claude Trichet sostenevano contro ogni evidenza empirica la tesi dell’austerità espansiva, una restrizione di bilancio che avrebbe dovuto liberare le forze vive dei mercati e quindi rilanciare la crescita. Un’austerità che Schäuble imponeva ai paesi in crisi ma seguiva anche in casa. Ha fatto il giro del mondo, in occasione della sua partenza dal ministero delle Finanze nel 2017, la foto dei dipendenti che nel cortile formavano un grande zero in omaggio al raggiunto pareggio di bilancio.
Strategia fallimentare
La storia si è incaricata di mostrare l’inefficacia e il costo di quella strategia. Non sorprendentemente, l’austerità non è quasi mai espansiva e certamente non lo è stata nell’eurozona. Gli aggiustamenti imposti ai paesi della periferia hanno provocato una crisi che per alcuni di essi non era ancora riassorbita alla fine del decennio. Inoltre, questa avrebbe potuto essere meno dolorosa se i paesi più forti avessero sostenuto la crescita dell’eurozona con politiche espansive, invece di frenare anch’essi. Il giudizio è senza appello: l’eurozona è l’unica grande economia avanzata che, dopo quella del 2009, ha subìto una seconda recessione nel 2012-13.
Non solo: da allora la domanda domestica è rimasta anemica, e l’economia europea si è “germanizzata”, riuscendo a crescere solo grazie alle esportazioni; e contribuendo, così, alle crescenti tensioni commerciali, accusata dagli organismi internazionali e dagli Usa di esercitare una pressione deflattiva sull’economia mondiale.
La dottrina di una crisi causata dall’irresponsabilità fiscale di governi spendaccioni ha rapidamente perso smalto, e già nel 2014 molti dei suoi sostenitori iniziali (ad esempio Mario Draghi, nel frattempo divenuto presidente della Bce) optavano per una spiegazione più “simmetrica”, per cui le radici della crisi erano negli squilibri di bilancia dei pagamenti di cui erano ugualmente colpevoli i paesi troppo spendaccioni e quelli troppo austeri.
Ma Schäuble non ha mai rinnegato la sua convinzione che la sola medicina necessaria fosse il ridimensionamento della spesa pubblica, e la Germania ha imposto questa visione anche nelle riforme delle istituzioni europee (dal Mes al fiscal compact). Con la crisi del Covid, e con il convinto sostegno della Germania a Next Generation Eu, sembrava che la dottrina ordoliberale fosse andata finalmente in pensione insieme a Schäuble, il suo più fiero partigiano. Ma proprio gli eventi recenti ci mostrano che questa era una pia illusione.
Probabilmente Schäuble avrebbe approvato la (non) riforma del patto di stabilità imposta dal suo successore Lindner, che ha come solo faro la riduzione del debito pubblico. Schäuble ci ha lasciati, ma il feticcio della parsimonia pubblica e privata come virtù salvifica è vivo e vegeto.
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