Tomaso Montanari, storico dell’arte e rettore dell’Università per stranieri di Siena, è da due giorni in un vortice di critiche trasversali per aver parlato di «falsificazione storica» a proposito della Giornata del ricordo, con cui vengono commemorate le uccisioni avvenute sul confine orientale italiano alla fine della Seconda guerra mondiale e che sono generalmente conosciute come “foibe”.
Montanari non è nuovo alle dichiarazioni controverse e negli anni si è fatto un buon numero di nemici a destra, al centro e persino nel centrosinistra, l’area politica a cui è dichiaratamente più vicino.
In questa occasione i suoi avversari non hanno perso occasione di sfruttare l’apparentemente micidiale accusa di “negazionista”, arrivando a chiedere la sua rimozione dell’incarico di rettore. Ma per quanto Montanari possa essere antipatico, per quanto indelicata possa essere la scelta delle parole che ha utilizzato, il suo punto ha più di un fondo di verità.
Da oltre vent’anni, la memoria dei tragici fatti avvenuti lungo il confine orientale è stata occupata militarmente dalla destra radicale e si è trasformata in una narrazione vittimistica e assolutoria del regime fascista.
Dirottare la storia
Il modo in cui oggi sono ricordate le foibe è il frutto di un processo politico le cui radici affondano nella “costituzionalizzazione” della destra di Alleanza nazionale da parte di Silvio Berlusconi, che per la prima volta trasforma in partito di governo la destra erede dei neofascisti e che prosegue con i tentativi di conciliazione nazionale portati avanti dal centrosinistra, i paragoni tra partigiani e volontari che combatterono per la Repubblica sociale fascista, il lavoro di presidenti della Repubblica come Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano.
Alle aperture di leader come Gianfranco Fini che parlavano di fascismo come male assoluto, sembrava appropriato rispondere riconoscendo le colpe della propria parte. L’uscita, all’incirca negli stessi anni, di una serie di popolari libri che riepilogano i crimini commessi dalle forze partigiane e comuniste, sul confine orientale e nel resto d’Italia, ha contribuito a trasformare l’operazione in un episodio di rilevanza nazionale.
È al culmine di questo processo che il secondo governo Berlusconi ha istituito nel 2004 il Giorno del ricordo, fissato ogni anno il 10 febbraio, a pochi giorni di distanza dal Giorno della memoria della Shoah, una scelta che tutt’ora molti storici ritengono controversa.
Dopo i libri sono usciti i film, le fiction, mentre le celebrazioni del 10 febbraio creano una ritualità nazionale. Ogni anno, per giorni, il tema è sulle prime pagine dei giornali, mentre figure istituzionali e leader di partito partecipano alla cerimonia e la televisione trasmette speciali e documentari.
Tra le solitarie voci critiche, la storia del massacro degli italiani da parte dei partigiani jugoslavi e comunisti si impone nella memoria collettiva come un episodio di assoluta e astorica malvagità, privo di sfumature e di contesto.
Dati, fatti e contesto
Ma questo racconto è, se non una falsificazione come sostiene Montanari, almeno fortemente lacunoso e impreciso. Le proporzioni dell’evento, ad esempio, sono state totalmente falsate. Lo storico Eric Gobetti, nel suo libro “E allora le foibe?”, ricorda che Maurizio Gasparri, politico proveniente dalle fila dei postfascisti, arrivò a parlare di «milioni di infoibati».
Anche se queste esagerazioni sono rare, è diffusa l’idea che i massacri del confini orientale siano stati speciali e notevoli pur essendo avvenuti in un periodo di estrema violenza. In realtà coinvolsero alcune centinaia, forse migliaia di persone. Per fare un paragone, furono più numerosi gli atti di repressione e le uccisioni extra giudiziali che avvennero nel Nord Italia per mano di italiani e con vittime altri italiani a cavallo della fine del conflitto.
Le uccisioni, inoltre, vengono raccontate come casi di pulizia etnica, prendendo a prestito un termine che le guerre degli anni Novanta ci hanno portato ad associare all’ex Jugoslavia e che da allora suscita una speciale repulsione.
Ma questi termini, così come la parola “genocidio”, sono fuori posto in quel contesto. I partigiani comunisti portarono a compimento una spietata opera di terrorismo politico, uccidendo fascisti, loro collaboratori e semplici sospetti, che fossero italiani, sloveni o croati. Numericamente, le uccisioni di italiani impallidiscono di fronte alle purghe a cui il leader partigiano e poi dittatore Jugoslavo Tito sottopose il suo stesso popolo.
Infine, l’attuale narrazione dominante cancella completamente dal racconto il suo contesto storico e le responsabilità fasciste e italiane. Il confine orientale fu la zona d’Italia che per prima sperimentò la brutalità fascista e le minoranze di lingua slava iniziarono ad essere perseguitate dalle squadracce ben prima dell’inizio del regime.
Scoppiata la guerra, la Jugoslavia fu sottoposta ad anni di brutale occupazione da parte dei fascisti e dei nazisti, che alimentarono la guerra civile nel paese, mettendo le varie componenti etniche della regione le une contro le altre. Si calcola che circa mezzo milione di jugoslavi siano morti durante l’occupazione e nel corso degli scontri fratricidi tra fazioni.
Nulla di tutto questo rende meno orribili o più giustificabili i massacri delle foibe e l’esodo che ne seguì. Ma dimostra come celebrare solo una parte di questa vicenda sia in effetti un atto di falsificazione, un tentativo politico di riscrivere la storia per dipingere una parte esclusivamente come vittima e un’altra esclusivamente come carnefice. Le cose in realtà sono ben più ambigue.
La congiura del silenzio
È vero che questo triste stato di cose è stato causato da quella che diversi storici hanno chiamato “congiura del silenzio”. Per decenni, la vicenda del confine orientale è rimasta per lo più oscura al grande pubblico e ignorata dalle istituzioni.
Non si è trattato, però, di una “congiura comunista”, come si sente spesso sostenere, quanto piuttosto di una congiura a cui tutti presero parte. I comunisti per ovvie ragioni: erano complici ideologici e, in alcuni casi, anche materiali delle uccisioni. Ma anche le altre forze politiche avevano i loro motivi.
Tirare fuori le foibe avrebbe inevitabilmente spinto gli jugoslavi a tirare fuori i loro torti. Alle trattative di pace era stato riconosciuto che la Jugoslavia era il paese che l’Italia aveva più danneggiato e a cui spettavano le maggiori riparazioni di guerra. Ma nessuno dei generali italiani responsabili di aver commesso crimini di guerra nel paese era stato punito e nessun governo italiano formulò mai pubbliche scuse per aver invaso il paese senza provocazione. Evitare di parlare di foibe sembrava un piccolo prezzo da pagare per evitare ulteriori recriminazioni jugoslavie (soprattutto quando, dopo la rottura tra Tito e Stalin, la Jugoslavia era divenuta un potenziale alleato nella Guerra fredda).
Allo stesso tempo, le vicende del confine orientale non erano un argomento completamente ignorato e conosciuto solo da un pugno di archivisti. Certo, non venivano celebrate con la fanfara pubblica degli ultimi anni, ma erano un argomento frequentemente utilizzato dalla pubblicistica anticomunista.
Alle foibe e agli altri crimini commessi dai partigiani, ad esempio, Indro Montanelli dedicò numerose pagine della sua popolarissima Storia d’Italia. Negli archivi storici dei principali quotidiani si trovano centinaia di articoli che nominano le foibe anche prima degli anni Novanta (il numero poi, ovviamente, moltiplica).
Rimarginare le ferite
Le cose sono molto cambiate da allora. Mentre il discorso collettivo veniva dirottato dalla destra radicale, gli storici compivano il loro silenzioso lavorio di ricomposizione, riempiendo i vuoi lasciati da decenni di congiura del silenzio. Una commissione mista di storici italiani e sloveni, ad esempio, ha pubblicato di recente la prima storia completa e condivisa del confine orientale.
Anche le istituzioni si sono accodate. Dopo le celebrazioni quasi sciovinistiche dell’ultimo periodo, l’anno scorso il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è recato alla foiba di Basovizza insieme al suo omologo sloveno per ricordare le vittime italiane delle milizie comuniste jugoslave e, allo stesso tempo, un gruppo di giovani patrioti sloveni condannati morte dal tribunale speciale fascista.
Nella stessa visita, Mattarella è stato il primo presidente della Repubblica a visitare il Narodni Dom, l’edificio della comunità di lingua slovena a Trieste incendiato dai fascisti in una delle loro prime azioni squadristiche.
Il più grande ostacolo sulla strada della creazione di una memoria sana e condivisa del nostro passato oggi non sono i negazionisti delle foibe, una categoria scarsamente rappresentata e quasi invisibile. Non è nemmeno Montanari. Sono invece coloro che pretendono di paragonare le foibe addirittura alla Shoah, come faceva una proposta di legge di Fratelli d’Italia, prudentemente fatta scomparire, e come ha già fatto la regione Veneto in una sua legge regionale.
Questa sì che è un’autentica e dannosa falsificazione storica. Ancora di più: è un gesto «frutto di ignoranza o stupidità», come lo ha definito su Domani Marcello Flores, decano degli studiosi italiani di genocidi.
© Riproduzione riservata