Stanziati altri 450 milioni per completare l’opera avviata nel 1992. Ci è già costata 9 miliardi. Eppure questo modello che non prevede gare e responsabilità per le imprese, lo si vuole applicare al Ponte sullo Stretto. E impedirà di realizzare le opere che davvero servono al sud e alle città
È passata sotto silenzio a fine anno la notizia di uno stanziamento di 450 milioni di euro per il completamento della linea ad alta velocità per i treni tra Genova e Milano. Come se si trattasse di una questione per addetti ai lavori e non di una vicenda che continua a provocare danni enormi alle casse dello stato, caratterizzata da un incredibile intreccio di errori, interessi privati e politici, che non vanno dimenticati. Soprattutto ora che quegli stessi errori li stiamo ripetendo.
Ma facciamo un passo indietro, risale a più di 30 anni fa la scelta di inserire la tratta del cosiddetto Terzo Valico nell’ambito del grande progetto di Lorenzo Necci dell’alta velocità ferroviaria.
Al governo c’erano prima Giulio Andreotti e poi Giuliano Amato e la costruzione fu affidata senza gara al Consorzio Cociv – di cui faceva parte perfino il gruppo Ferruzzi-Montedison – per una spesa stimata di 2 miliardi di euro. La domanda che non si può eludere è perché nel 2024 servano altri soldi per quest’opera che oramai ha superato, secondo le ultime stime, i 9 miliardi di euro di spesa per coprire appena 54 chilometri?
Progetti senza gara
Chi può essere contrario a completare il collegamento veloce tra Genova e Milano, a liberare tracce ferroviarie per le merci che dal porto di Voltri risalgono verso l’Europa? Nessuno. A maggior ragione ora che finalmente sono stati inaugurati i primi 8 chilometri. E quindi, perché non stanziare ad ottobre 700 milioni di euro, nel decreto Asset, e ora altri 450 quando si scopre che le rocce nel cantiere di Radimero sono più friabili del previsto.
In fondo è quello che si è fatto in tutti questi anni, ogni volta che i costi lievitavano e per una ragione molto banale, che stava scritta in quell’atto firmato nel 1992. Non solo l’affidamento era senza gara, ma la stima della spesa era fatta sulla base di un progetto di massima, inevitabilmente approssimativo e da aggiornare in corso d’opera. Tanto lo stato avrebbe coperto tutta la spesa e pazienza per i ritardi.
Attenzione, non è vero che tutti i governi hanno chiuso gli occhi su questa vergogna. Pier Luigi Bersani, quando nel 2007 era ministro dello Sviluppo economico del governo Prodi, cancellò questo sistema. Proprio perché i lavori non erano ancora partiti e bisognava responsabilizzare le imprese, ridurre la spesa e ridare finalmente trasparenza a un meccanismo che era andato fuori controllo.
Salvo che con il ritorno di Silvio Berlusconi quella decisione fu cancellata e riaffidato tutto al Consorzio. Che nel frattempo era passato a Impregilo e, dopo le varie traversie finanziarie e societarie, a Webuild.
La decisione di Bersani era dettata anche dal fatto che sulle altre linee in costruzione i prezzi erano quadruplicati rispetto ai preventivi, con costi 2-3 volte superiori per chilometro agli altri paesi europei, per via di un continuo aumento della spesa. Tutto filava liscio, fatti salvi i periodici interventi della magistratura, anche su questa tratta, con arresti e denunce. Perché questa vicenda ci riguarda nel 2024? Perché lo stesso identico modello si vuole applicare al grande progetto del Ponte sullo Stretto di Messina del ministro Matteo Salvini.
E ora il Ponte
Per chiarezza, le infrastrutture sono fondamentali per lo sviluppo di un paese, ma non siamo più negli anni Cinquanta e si dovrebbe superare la fase infantile del dibattito sulle scelte da prendere.
Negli altri paesi europei nessuno si azzarderebbe a proporre progetti che non siano motivati sulla base di chiari criteri pubblici e analisi costi-benefici indipendenti. Anche per spiegare perché alcune decisioni vengono prese, ad esempio quando il ritorno dell’investimento è lontano, rivendicando la scelta politica, dettata da ragioni di coesione territoriale o di strategicità di lungo termine.
Solo in Italia decisioni su investimenti di questa portata vengono prese sulla base di slogan, promesse di posti di lavoro, di nuovi cantieri che più sono grandi e meglio è. Sembra un secolo fa, ma nel 2001 non si parlava d’altro che del diluvio di investimenti infrastrutturali che grazie alla semplificazione impressa dalla legge Obiettivo si sarebbero sbloccati in Italia.
Bruno Vespa e Berlusconi disegnavano in televisione tracciati sulla lavagna. Veniva assicurato che banche e investitori privati erano pronti a finanziare autostrade e linee ferroviarie, a realizzare a proprio rischio il collegamento tra Messina e Reggio Calabria. Tutto scritto in atti parlamentari e poi trasformato in leggi e decreti attuativi. Risultato: l’unica autostrada realizzata con contributi privati, la Brebemi, è stata un clamoroso fallimento finanziario mentre tutte le altre promesse sono rimaste sulla carta.
Venti anni dopo, il ministro Salvini riprende in mano il Ponte sullo Stretto con l’impegno a realizzarlo senza un euro dai privati. Scelta politica, legittima, ma quello che è inaccettabile è che il modello scelto sia lo stesso fallimentare sperimentato in questi anni.
Nella legge di Bilancio è previsto che l’opera costerà 11,6 miliardi di euro. L’indicazione della cifra non è casuale, serve a evitare che la Commissione europea obblighi a fare una nuova gara, come prevedono le direttive, per l’aumento dei costi rispetto alla proposta del Consorzio (guidato da Webuild) che 19 anni fa aveva vinto la gara.
La cosa incredibile è che manca il progetto, che sarà redatto e approvato proprio quest’anno. E nessuna garanzia esiste che stavolta ci saranno controlli indipendenti e responsabilità a carico dell’impresa. Ma come è possibile fidarsi ancora di un meccanismo del genere? Quello che conta per il governo e per le imprese è partire. Poi, quando l’opera rientrerà nella categoria delle incompiute, scatterà l’indignazione collettiva, e una strada in Italia si trova sempre per finanziarne il completamento e dimenticarsi degli errori.
A pagare sarà il sud, a cui già sono stati sottratti oltre 2 miliardi di euro dai fondi europei di coesione, ma anche tutte le altre opere che servirebbero ad avere un paese davvero più moderno e vivibile. Perché tutta la spesa pubblica per le infrastrutture è previsto che vada qui.
Quando ci chiederemo, tra qualche anno, perché non passano i treni, di come mai le nostre città sono così diverse dalla Spagna o dalla Francia, evitiamo di usare luoghi comuni. Dipenderà dalle scelte che si stanno prendendo ora e la responsabilità sarà anche di chi all’opposizione avrà scelto, o meno, di combatterle.
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