L’Italia, dal 2023 a oggi, ha perso due posizioni nella classifica che analizza la qualità e la quantità di norme a tutela delle persone Lgbt. E ha anche deciso di non firmare la dichiarazione per la promozione delle politiche europee a favore delle comunità Lgbt. Insieme all’Ungheria
È arancione il colore dell’Italia nella Rainbow map che ogni anno analizza la qualità e la quantità di norme a tutela delle persone Lgbt. Rispetto al 2023 è scesa di due punti, schiacciata nella seconda metà della classifica, arrivando alla 36esima posizione su 49. Il nostro paese, insieme a Ungheria, Romania, Bulgaria, Croazia, Lituania, Lettonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, non ha firmato la dichiarazione per la promozione delle politiche europee a favore delle comunità Lgbt presentata dalla presidenza di turno belga.
La dichiarazione era stata preparata in occasione della Giornata mondiale contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia, che cadeva ieri. E che la premier Giorgia Meloni ha celebrato con un messaggio in cui ha detto che «è una priorità per le istituzioni combattere ogni forma di discriminazione, violenza e intolleranza e investire sulla prevenzione e sul supporto alle vittime». Condannando le «persecuzioni e gli abusi che in molte nazioni del mondo vengono ancora perpetrati in base all’orientamento sessuale» e ricordando che «il governo è, e sarà, sempre in prima linea».
Mai dichiarazione è stata più infelice, verrebbe da dire. Secondo l’Arcigay, nell’ultimo anno i media hanno segnalato 149 casi di violenze o discriminazioni generate dall’odio verso le persone Lgbt, che in tre casi hanno condotto a omicidi e in uno al suicidio. Questo è avvenuto in uno stato, quello italiano, che non ha una legge che contrasta i crimini d’odio basati sull’orientamento sessuale o l’identità di genere. «Il contesto – scrive Gabriele Piazzoni, segretario generale di Arcigay – è quello di uno stato che anziché prendersi cura delle persone Lgbt talvolta si iscrive nella lista dei carnefici, rappresentando per quelle persone perfino un pericolo».
Il governo, che si professa in prima linea, per voce della presidente del Consiglio, ha promesso di affrontare la cosiddetta «ideologia gender». La stessa Meloni, nel giugno 2022, scriveva sul suo profilo Instagram «sì alla famiglia naturale, no alle lobby Lgbt», condannando le «terribili pratiche come l’utero in affitto». La gestazione per altri è stata e continua a essere una delle battaglie della premier che ad aprile, durante un convegno, ha detto che «l’utero in affitto è una pratica disumana», auspicando «quanto prima» l’approvazione della proposta di legge per renderla «reato universale».
La famiglia (tradizionale)
Ma Meloni – che più volte si è detta non favorevole al diritto di adozione da parte delle coppie omosessuali – non è sola nella sua battaglia «in prima linea» contro i diritti delle persone Lgbt. Al suo fianco c’è la ministra per la Famiglia, Eugenia Roccella, che durante una puntata della trasmissione L’aria che tira ha esplicitato la sua opinione in materia: «Penso che un bambino abbia diritto ad avere una mamma e un papà».
Sulla scia di queste dichiarazioni negli scorsi mesi la procura di Padova aveva chiesto di cancellare oltre 30 atti di nascita di bambine e bambini di coppie formate da due donne, concepiti all’estero con fecondazione eterologa. In Italia l’accesso a questa pratica è permesso solo alle coppie eterosessuali conviventi o sposate per cui molte coppie omosessuali e donne single vanno all’estero e poi chiedono il riconoscimento del legame di parentela.
La procura aveva chiesto di togliere dagli atti di nascita l’indicazione della madre intenzionale, cioè quella che non li ha partoriti, come secondo genitore. I ricorsi presentati dalla procura sono però stati respinti dal tribunale di Padova, ma alla decisione ha fatto seguito il Viminale, che ha impugnato con reclami le sentenze del tribunale. Negli stessi giorni il ministero dell’Interno aveva bloccato le registrazioni all’anagrafe dei figli delle famiglie arcobaleno, decisione a cui quelle stesse famiglie avevano risposto scendendo in piazza.
La carriera alias
Un ruolo importante nel contrasto all’omobitransfobia è rappresentato dalla scuola, anche se proprio quei luoghi sono stati sede di battaglia politica. Sono 348 gli istituti scolastici che garantiscono la possibilità per le persone trans* di accedere alla carriera alias. Si tratta di un protocollo che permette alle persone trans* di avere sui documenti interni il nome che corrisponde alla propria identità di genere, senza che questo abbia valore legale ma con l’obiettivo di evitare discriminazioni e misgendering (uso di termini che si riferiscono al sesso biologico ndr). Fratelli d’Italia aveva presentato una mozione richiedendo che gli «istituti scolastici lombardi che aderiscono alla carriera alias» disapplicassero «il regolamento». Una proposta che aveva fatto discutere e che è stata bocciata con 33 contrari e quattro astenuti.
In questi mesi il governo si è mosso dimostrando l’importanza della maternità (ma solo se in una relazione eterosessuale) e il valore dato alla famiglia (ma solo quella tradizionale). A conti fatti pare che le intenzioni di combattere «discriminazione, violenza e intolleranza» rimangano vere solo sulla carta.
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