Colpisce e quasi intenerisce che, a 83 anni e mezzo, Giuliano Amato continui a puntare con infantile pertinacia al Quirinale, la più alta carica dello stato alla quale è candidato da sempre, ininterrottamente, domeniche comprese. Il segnale è sempre lo stesso dal 1999, quando fu poi eletto Carlo Azeglio Ciampi. Fa uscire sui giornali una frase in codice, tipo quelle che i complottisti più tonti attribuiscono ai massoni. Sempre la stessa: «Per Amato stavolta ci vuole una donna al Quirinale». E tutti capiscono e ridono: «Ci prova anche stavolta», pregustando la nuova delusione.

Amato è unico. Molti politici vivono l’impegno pubblico al servizio di sé stessi più che del prossimo, ma sanno che il sistema tollera quel peccato solo se resta segreto, come l’affiliazione alla massoneria. Lui invece, altro che peccato, ritiene suo diritto reclamare nuove soddisfazioni personali che lo risarciscano delle amarezze che gli ha inflitto il destino. È giudice costituzionale da otto anni e a gennaio diventerà presidente della Consulta. Ma non gli basta a lenire il dispiacere di stare sulle scatole a tutti.

Anni fa Giorgio Marchetti, architetto noto alle masse soprattutto toscane con lo pseudonimo Ettore Borzacchini con cui firmava impagabili libri e articoli per il Vernacoliere di Livorno, rivelò di essere stato compagno di classe di Amato al liceo Machiavelli di Lucca. E cesellò il ritratto impietoso di un quattordicenne mingherlino e odioso, pettinato con la riga da una parte, alieno dal perdere tempo dietro alle coetanee o a una bicicletta, primo della classe che non passava i compiti, sociopatico mostruosamente intelligente. Borzacchini riconosceva nello statista i caratteri fondamentali di quel ragazzino complessato e applicava al compagno di un tempo la misteriosa legge di natura che regola popolarità e impopolarità, sentendosi obbligato a gridare al mondo, 50 anni dopo, quanto quel Giuliano gli stesse antipatico.

In decenni di studi e insegnamento di diritto costituzionale comparato, la sua materia, la mente raffinatissima di Amato non ha colto il nocciolo della costituzione materiale del parlamento italiano, scritta a lettere invisibili tra le fibre dei legni pregiati di Montecitorio e palazzo Madama, in una lingua peculiare un po’ italiana e un po’ romanesca. Nell’italiano c’è il Dna ufficiale della nazione che mescola paganesimo, cattolicesimo e illuminismo. Nel romanesco c’è la cultura di una capitale abituata a esserlo da 2.800 anni, dove per vincere o solo sopravvivere leader di ogni origine e specie (da Odoacre a Umberto Bossi a Karol Wojtyla) hanno dovuto apprenderne la cultura millenaria.

E l’articolo 1 della legge non scritta, pertanto sottovalutata dal fine giurista, recita così: «Stacce». Traduzione per accademici poliglotti: se subisci il fuoco intenso e concentrico di critiche aspre, stacci, abbozza, chiudila lì perché, rompendo i cabasisi all’universo mondo per spiegare che le accuse sono immeritate, otterrai solo la promozione da antipatico a insopportabile, e poi a odioso. Come Matteo Renzi che ogni volta che sbraita la sua purezza convince alla fuga qualche residuo sostenitore.

Il passato antipatico

Il mondo è cattivo e non perdona gli antipatici. Massimo D'Alema, il cui rating oscilla da sempre tra insopportabile e odioso, si è un po’ salvato in vecchiaia con l’autoironia. Anche Elsa Fornero ha obbedito alla regola “stacce”. Ha smesso di spiegare che la sua riforma delle pensioni del 2011 era una figata che solo gli stupidi non capivano, ed è subito diventata più simpatica, recuperando anche autorevolezza in materia previdenziale. Amato non si rende conto che mai è stato eletto al Quirinale un politico con un passato così antipatico, e non si rassegna.

Se qualcuno osa solo alludere al fatto che è stato per oltre dieci anni il braccio destro di Bettino Craxi, impazzisce, smentisce, querela, nega, distingue, sottilizza, evoca suoi audaci no al capo. E la gente ne deduce che è stato davvero il braccio destro di Craxi e si ricorda che stava antipatico anche al benefattore che lo definì in modo sprezzante «un professionista a contratto». Negli stessi anni Bruno Trentin, leader della Cgil per la quale Amato aveva lavorato per anni, esprimeva lo stesso concetto con la ferocia consentita da un diario privato («addestrato a randellate dal suo padrone a leccargli le mani» e dominato da «un’ambizione forsennata»).

Craxi era un politico appassionato e vedeva del suo Dottor Sottile un uomo di intelligenza e cultura senza pari, perciò utile, ma prigioniero di un’unica passione, sé stesso, che gli impediva di essere davvero un compagno o un complice. E come Craxi tutti gli estimatori di Amato pensano a lui con la stessa passione con cui si pensa all’idraulico quando il lavandino scarica male.

Nel 2015 Pier Luigi Bersani immaginò di usarlo sul Quirinale come esca per Silvio Berlusconi, consegnando questi termini testuali alla discrezione fatta persona, Matteo Renzi: «Se tu proponi Amato o Mattarella, io ci sto. Su Amato ti arriverebbe qualche schizzo, perché è un po’ controverso nell’opinione pubblica e nella sinistra, ma per Amato gli schizzi sono pronto a prendermeli con te. Su Mattarella problemi zero, e lo sai». Sembra di vederlo Bersani che sillaba «controverso» masticando il toscano per non ridere.

La candidatura di Amato serviva per avere i voti di Berlusconi, un altro che deve molto a Craxi e lo riconosce, infatti è più simpatico. Per Berlusconi, Mattarella era l’anticristo, l’uomo che nell’estate del 1990 si era dimesso da ministro del governo Andreotti contro la legge Mammì che cementava il monopolio tv della Fininvest. Amato è invece l’abile professionista che, da vicesegretario del Psi, si adoperò perché la legge Mammì andasse in porto. Per Bersani, dunque, Amato lo puoi anche candidare a presidente della Repubblica se serve, però turandoti il naso per non sentire l’odore degli schizzi che lo accompagnano.

Culto degli affari suoi

Si può capire che a una persona con una così alta opinione di sé certi resoconti provochino rabbia. Alla base dell’equivoco c’è la peculiare ideologia amatiana del, parafrasando Stalin, “socialismo per una sola persona”. Amato si è sempre fatto gli affari suoi convinto che coincidessero con l’interesse generale, che nella sua felicità personale ci fosse (“per rappresentazione”, direbbero i giuristi) il riscatto di tutte le classi umili, e per questo andasse perseguita in ogni modo. Il suo amico (o ex amico o mai veramente amico, non si capisce bene) Franco Bassanini (anima inquieta, ex democristiano, ex socialista, ex quasi tutto, non meno ambizioso di Amato), ha raccontato nel 1992 in un’intervista all’Espresso la parabola del suo collega all’università di Firenze, da giacobino implacabile, che nel 1976 preparava le liste degli alti burocrati da epurare quando il Pci avrebbe preso il potere, a opportunista dotato di abbastanza «stomaco» (testuale) da mettersi al servizio di Craxi.

Il leader socialista vede le capacità del brillantissimo giurista quarantenne e lo prende a servizio. Dal 1983 al 1987 Amato è, con Craxi premier, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ciò che Giulio Andreotti fu per Alcide De Gasperi, Bassanini per D’Alema, Enrico Letta per Romano Prodi, Gianni Letta per Berlusconi. È l’alter ego, l’esecutore. Finito il primo governo a guida socialista, Craxi gli concede lo scatto di carriera, ministro del Tesoro con i governi Goria prima e De Mita poi (1987-1989).

In questo periodo Amato si inventa la riforma delle fondazioni bancarie: tutte le casse di risparmio e simili (compresi colossi come il Monte dei Paschi), fino a quel momento enti statali, vengono trasformate in società e le azioni affidate a nuove fondazioni. Vuol dire consegnare le banche ai potentati locali che per un po’ obbediscono alla partitocrazia romana, poi, dopo la dissoluzione che parte con l’inchiesta Mani pulite, non rispondono più a nessuno.

L’istituzione delle fondazioni è alla base della crisi bancaria degli ultimi anni, in particolare del Monte dei Paschi, di cui naturalmente Amato negherà di essersi mai occupato visto che lui a Siena andava solo per farsi eleggere in parlamento, per assistere al Palio e per chiedere al potente presidente Giuseppe Mussari di non tagliare l’annuale finanziamento per il Tennis Club di Orbetello di cui era presidente («senza evidentemente alcuna finalità personale», ama precisare il Dottor Sottile, credendosi definitivo).

Amato non sbaglia mai. È stato lui a definire le fondazioni bancarie «Frankenstein», pensando di azzerare con una risata il disastro che ha combinato. Stessa storia con il mitico prelievo del 6 per mille dai conti correnti quella notte del 1992 in cui pare che stessero saltando i conti dello stato. Amato è presidente del Consiglio, appena designato dal presidente Oscar Luigi Scalfaro su indicazione di Craxi che, causa inchiesta Mani pulite, non può tornare a palazzo Chigi in prima persona e dà a Scalfaro una terna di socialisti doc, Amato, Gianni De Michelis e Claudio Martelli. «L’ordine è solo alfabetico», nota velenosamente il designatore, già mezzo pentito.

Amato dunque decide il prelievo notturno con il ministro delle Finanze Giovanni Goria e con il governatore della Banca d’Italia, Ciampi. Ora voi pensate a un signore che quel giorno ha venduto la sua unica casa e versato i 300mila euro incassati sul conto da cui il giorno dopo li avrebbe prelevati per pagare una nuova abitazione. Quella notte Amato lo ha creduto ricco e gli ha sfilato 1.800 euro.

Se oggi si incontrassero, l’ex premier gli spiegherebbe che non è stato lui, indomito difensore degli umili, ma Goria che però (dettaglio leggermente disgustoso) è morto: «Ricordo che dissi: “Queste cose le potete chiedere alla Thatcher, non a me”», ha raccontato Amato senza spiegare chi avesse il potere di chiedere certe cose brutte al capo del governo. «Fu a quel punto che Goria, allora ministro delle Finanze, mi fece quella proposta. Risposi: “Gianni, lavoraci e dimmi domattina cosa ne pensa Ciampi”. Il mattino dopo ci fu un equivoco: capii che Goria con la testa mi dicesse di sì quando chiesi se Ciampi era d’accordo; in realtà Ciampi non l’aveva neanche sentito, e la misura passò».

Se Amato proponesse questo modello di approssimazione sui destini della nazione al signore a cui furono sfilati i 1.800 euro, questo con tutta probabilità gli risponderebbe: «Giulia’, avrai ragione però sei tu che mi stai sulle balle da 29 anni e almeno non mi chiedere di dirti grazie. Stacce».

«Se io li ho rubati»

Nel 2001 Amato firma da premier, con Bassanini ministro, la riforma del titolo V della Costituzione, lo sgangherato federalismo in salsa ulivista approvato in fretta e furia per scimmiottare la Lega: un disastro di cui ancora paghiamo i prezzi, infatti quella riforma non si sa più chi l’ha scritta.

Ma il vero capolavoro è la pensione. Nel 1994 Berlusconi vince le elezioni e regala ad Amato la presidenza dell’Antitrust. Il nostro eroe è in difficoltà. Craxi va verso la latitanza e Amato è già nel mondo socialista “il traditore”: il suo governo non è riuscito a far passare il decreto Conso, colpo di spugna sul reato di illecito finanziamento ai partiti. Craxi lo accusa di non essersi battuto fino in fondo, magari già pensando a passare al partito dei vincitori, obiettivo poi puntualmente centrato: appena tre mesi dopo la morte di Bettino (19 gennaio 2000) diventa premier del governo dell’Ulivo, poi si legherà a D’Alema attraverso la fondazione Italianieuropei, infine nel 2007 sarà il primo (in ordine alfabetico) dei 45 membri del comitato promotore del Pd.

La rabbia profetica di Craxi si tramanda attraverso una frase mai detta dall’uomo che Amato mai andò a trovare ad Hammamet e che pure sintetizza così bene quella tragedia politica da essere diventata leggenda: «Giuliano, se io li ho rubati tu li hai spesi». Il Dottor Sottile diventa una calamita per l’antipatia. Bassanini gli notifica a mezzo stampa il disgusto, per così dire da sinistra, all’indomani dell’elezione di Scalfaro: «Quando alla vigilia delle elezioni per il Quirinale ho letto quella frase di Amato: “Tra Bobbio e Forlani preferisco Forlani”, ho avuto un brivido».

E nel 2000, quando diventa presidente del Consiglio dopo la caduta di D’Alema, gli arriva il “vade retro” di Antonio Di Pietro che rifiuta di fare il ministro e lo accusa: «Non potevo perdonargli la partecipazione alla direzione socialista “del poker d’assi”, nel 1992, quando Craxi tirò fuori i dossier dei servizi per bloccare Mani pulite e Amato, lì presente, non disse una parola, salvo poi raccontare che era andato al bagno...».

È nel momento più difficile per Amato, rimasto fuori dal parlamento alle politiche del 1994, che arriva la presidenza dell’Antitrust con lautissimo stipendio. Il mandato è di sette anni ma al quarto Amato dice basta, spiegando che vuol tornare all’insegnamento. Appena lasciato l’Antitrust però compie 60 anni e va in pensione con un assegno di euro 22mila (lordi) al mese, il triplo di quanto gli sarebbe spettato da professore quale era.

Un pronunciamento del Consiglio di stato equipara infatti l’incarico all’Antitrust al rapporto di lavoro con lo stato come quello del professore universitario, per cui Amato coglie la possibilità di andare in pensione con i vecchi criteri (legati agli ultimi stipendi) calcolati non sull’università ma sull’Antitrust. La cosa è talmente assurda che immediatamente il governo D’Alema, di cui Amato nel frattempo è entrato a far parte, emana un provvedimento che vieta la furbata, cosicché il nostro rimane l’unico ad averne mai beneficiato.

La vicenda fa di lui un simbolo dell’avida furbizia della casta. Lui vuol far credere di essere nel mirino di un popolo ignorante sobillato da giornalisti in malafede. Ma non è così. Lo prendono per i fondelli anche due grandi elettori della prossima corsa al Quirinale come Giorgia Meloni («ma un presidente della Repubblica che non abbia passato la vita dentro i palazzi no, eh?») e Matteo Salvini («piuttosto che votare Giuliano Amato divento interista»). Lui protesta. E querela. Ha preso a 60 anni una pensione che è tre volte quella di un altro professore a 70 e minaccia sfracelli giudiziari per chi si permette di trovare la cosa poco estetica: la considera una violenza. Nel 2013 manca prima l’obiettivo Quirinale (rieletto Giorgio Napolitano) e poi quello di palazzo Chigi (nominato Enrico Letta). Perde la testa e denuncia il clima di odio di cui è vittima.

Il popolo grillino aveva circondato Montecitorio al grido “Rodotà! Rodotà!”, inneggiando a Stefano, il collega universitario di Amato che lo sfotteva ricordando che il suo stipendio di professore era di quattromila euro e non 22mila (vero, anche lui confondeva netto e lordo, ma la sostanza non cambia, “stacce”). E lui si dispera: «Ho visto il mio curriculum, lo specchio di una vita in cui io ho manifestato capacità, competenze e nulla altro, addotto a esempio di ciò che dobbiamo distruggere...».

La lettera contro il tweet

Il socialismo per una sola persona consiste esattamente in questo: se un uomo di origini umili ha successo nella vita è una vittoria del socialismo, quindi chi lo critica o lo sfotte per qualsivoglia ragione esprime una cultura antipopolare che minaccia gli umili non di miseria e carestia ma di una cosa molto più grave, la mancata elezione al Quirinale di Giuliano Amato.

Non è uno scherzo. L’eterno candidato ragiona davvero così. Leggere per credere. Il 4 marzo 2013, appena una settimana dopo le elezioni politiche e mentre la corsa al Quirinale non è ancora ufficialmente aperta, il nostro scrive una lettera a Repubblica per protestare contro un commento anonimo apparso su Twitter: «Se fanno il governissimo con Amato, al prossimo giro Grillo prende il 60 per cento».

Niente di che, penserete voi. Invece questa banale critica politica lo infiamma al punto da indurlo a compitare un impagabile selfie in salsa permalosa e paranoica. Talmente chiaro da far risparmiare un sacco di tempo ai suoi biografi: «Io non conosco l’autore di questo commento ma vorrei chiedergli sulla base di quali informazioni e valutazioni pensa e scrive su di me una cosa del genere. Forse lo fa sulla base della campagna dalla quale sono stato bersagliato, soprattutto in rete, perché sarei un vorace cumulatore di prebende pubbliche, sommando una pensione già alta con il vitalizio di ex parlamentare per un totale di 31mila euro mensili. Ma io ho reso noto da tempo che il vitalizio lo giro mensilmente a una comunità di assistenza e dallo stato ho quindi soltanto la pensione, che è al netto poco più di 11mila euro. È una pensione alta, lo so. (...) Posso essere crocifisso per questo? Con tutto il disagio che mi provoca dover parlare di me (ma a questo punto non posso non farlo), io, per cominciare, nella vita mi sono fatto largo con le mie forze e con le mie qualità. Non avevo alle spalle una famiglia altolocata – mio nonno era muratore, mia madre aveva fatto le elementari, mio padre era diplomato – e sono arrivato alla laurea ed oltre vincendo il concorso al collegio giuridico, annesso alla Scuola Normale. (...) Ne è uscito un curriculum che pochi hanno e me ne dovrei vergognare?».

Qualche settimana prima il comico Maurizio Crozza, in diretta su La7, aveva addestrato brevemente il numeroso pubblico in studio al famoso pernacchio alla Eduardo De Filippo, per poi lanciare il pernacchio collettivo con il seguente grido di battaglia: «Cavaliere di gran croce all’ordine e al merito della Repubblica italiana Giuliano Amato!». Parte il pernacchio di massa e segue scrosciante applauso. Crozza gongola: “Bellissimo!”. È uno spettacolo forse irrispettoso, forse incivile, però quando ti sei assunto la responsabilità di tassare i conti correnti o di tagliare le pensioni devi metterlo in conto. E invece no. Lui non ci sta. Non capisce che le donne e gli uomini sono cattivi e non solo hanno in odio i permalosi un po’ paranoici, ma quando ne riconoscono uno godono a infierire. Amato ci casca sempre ed è forse per questo che non è mai diventato e mai diventerà presidente della Repubblica. Stacce.

 

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