- Poco prima delle elezioni amministrative del 3 ottobre scorso Pier Ferdinando Casini ci ha regalato un impareggiabile autoritratto involontario (o studiato, con i democristiani di razza è sempre difficile capire).
- Memento mediare semper sarebbe il motto perfetto per l’ex ragazzone bolognese di 65 anni che il suo più recente capocordata, Matteo Renzi, vorrebbe al Quirinale considerandolo più accessibile di Mario Draghi.
- La sua carta vincente è la democristianità immutabile. Porta in sé quel carattere originario che innerva la storia patria da prima che esistesse la Dc, il cromosoma cattolico per cui ogni peccato si perdona, nessun guaio è irrimediabile e cambiare è sempre un rischio.
Poco prima delle elezioni amministrative del 3 ottobre scorso Pier Ferdinando Casini ci ha regalato un impareggiabile autoritratto involontario (o studiato, con i democristiani di razza è sempre difficile capire).
In una breve lettera a un quotidiano campano a proposito del candidato che ha continuato la sua battaglia politica dal letto dell'ospedale in cui è stato ricoverato per una leucemia, l'ex presidente della Camera è riuscito a scrivere le seguenti frasi.
«Conosco Vincenzo Inverso da una vita e fin che sono stato impegnato nella politica attiva mi è stato vicino nella buona e nella cattiva sorte». «Mi sprona a riaprire capitoli della mia vita di cui sono molto orgoglioso ma che per me sono definitivamente chiusi». «Pur non sapendo nemmeno in che tipo di lista sia candidato gli auguro ogni successo». «Gli voglio bene».
Casini è così, non vuol neppure sapere con chi si è candidato l'amico malato perché deve segnalarsi estraneo all'agone politico, in vista della corsa al Quirinale. Però gli vuole bene. Democristianamente, “Pier” vuole bene a tutti.
Mediare sempre
Il suo ex gemello siamese Marco Follini osserva che «non c’è una legge che porti il suo nome, né una particolare causa che egli abbia voluto intestarsi. Ma proprio questo modo di condursi può racchiudere a volte il senso più riposto della politica. E cioè il tentativo di regolare per quanto possibile l’equilibrio delle forze in campo. La mediazione, in una parola».
Memento mediare semper sarebbe il motto perfetto per l’ex ragazzone bolognese di 65 anni che il suo più recente capocordata, Matteo Renzi, vorrebbe al Quirinale considerandolo più accessibile di Mario Draghi. Lui ci crede e lo conferma nel metalinguaggio che dissimula, appreso da maestri come Toni Bisaglia e Arnaldo Forlani: «Presidenti della Repubblica si diventa, non ci si candida».
Nulla di questo professionista eterno della politica, in Parlamento dal 1983, meriterebbe attenzione se non quel certo quid, come direbbe Silvio Berlusconi, che potrebbe proiettarlo senza meriti particolari alla più alta carica dello Stato, peraltro tradizionale appannaggio dei comprimari della politica.
La sua carta vincente è la democristianità immutabile. Porta in sé quel carattere originario che innerva la storia patria da prima che esistesse la Dc, il cromosoma cattolico per cui ogni peccato si perdona, nessun guaio è irrimediabile e cambiare è sempre un rischio.
La democristianità è l’elemento che dal 1861 ha consolidato e corroso ogni stagione, anche quella fascista, e che oggi, a 30 anni dalla morte anagrafica della Dc, ancora paralizza e rassicura un paese sempre pronto a immalinconirsi all'idea che il vecchio sia spazzato via dal nuovo.
Casini incarna magistralmente la mediazione infinita tra passato e futuro, proponendo come punto d'incontro se stesso, l'eterno ragazzo che presta il suo volto simpatico all'immutabilità del presente, anche se orrendo.
Sapendo che l'unica vera passione politica nazionale è la nostalgia (di Mussolini, dei Savoia, di Berlinguer, della Dc, di Berlusconi, adesso di Renzi) e che il motto più viscerale e condiviso resta "aridatece er puzzone", Casini alimenta la nostalgia di se stesso, si colloca nel passato buttando lì la notizia insensata che ha smesso di fare politica, poi gli scappa la verità («Non so se sotto sotto non sto mentendo anche a me stesso») ed è sempre come se dicesse «dai, non ero male».
Così coltiva l'ennesima ambizione scegliendo la parte di sempre: il più brillante e simpatico tra i vecchi politici al tramonto.
Pronto a ritirarmi
Entra nel ruolo, solennemente, il 17 febbraio 1993, primo anniversario dell'arresto di Mario Chiesa, cioè dell'inizio dell'inchiesta Mani Pulite, la valanga che travolgerà tutto, a partire dal segretario della Dc Arnaldo Forlani di cui Pier è il più fidato scudiero.
Parla al Corriere della Sera con tono rassegnato e al tempo stesso offrendo il petto al nemico: «L'inamovibilità dei politici è finita e io non mi spavento, sono pronto anche a ritirarmi pur di non entrare nella schiera dei pentiti dell'ultim'ora: gente che ha fatto il ministro per anni e ora spara a zero. Sono pronto anche a fare autocritica, certo, ma non a pagare il prezzo dell'ipocrisia».
Tradotto: non faccio il pentito, cioè il delatore, piuttosto lascio la politica, anzi no, faccio semmai una franca autocritica per provare a ripartire. L'autocritica non è mai arrivata. Due passi avanti e due indietro, danza il valzer dell'immobilità che lo riporta sempre al punto di partenza, alla centralità di se stesso.
Appena due settimane dopo l'esternazione al Corriere che fissa comunque, a 37 anni, il momento più difficile della sua carriera, viene arrestato a Roma Lorenzo Cesa, il suo miglior amico politico e personale: 15 anni dopo Casini lo vorrà come testimone al suo matrimonio con Azzurra Caltagirone.
Si tratta di una delle inchieste più significative di Mani pulite, quella sulle tangenti per gli appalti Anas che venivano incassate dal ministro dei Lavori pubblici Gianni Prandini, forlaniano di ferro come Casini, considerato all'epoca grande sponsor dell'ascesa ministeriale dell'amico bresciano.
Sarà tutto prescritto, ma resta agli atti la confessione di Cesa al momento dell'arresto: «Un mio paesano di Arcinazzo, dipendente della società Gico dell’ingegnere Ugo Cozzani, mi disse che l’ingegnere voleva parlarmi, si trattava di fare una strada, mi sollecitò la definizione della pratica all’Anas.
Ebbi modo d’incontrarmi con il ministro Prandini al quale segnalai la pratica e mi sentii rispondere che dovevo chiedere al Cozzani il 5 per cento dell’importo dell’appalto. I lavori furono affidati al Cozzani, con il quale mi incontrai in piazza del Popolo, prelevai la borsa che mi consegnò contenente il denaro e di cui non contai il quantitativo, mi portai nell’ufficio del ministro nelle cui mani consegnai la capiente borsa in plastica rigida di colore grigio piuttosto spessa». Segue il racconto di altre operazioni simili.
Così funzionava la Dc, nel racconto di un protagonista. Casini si inabissa. Si sbraccia pubblicamente in difesa di Forlani, accusato e poi condannato per la tangentona Enimont, ma non dice una parola sul suo amico «da quando portavamo i pantaloni corti».
Sette anni dopo è testimone al processo. Nel resoconto dell'agenzia Ansa, gli viene chiesto «di raccontare se il suo amico Lorenzo Cesa, il maggiore accusatore di Prandini, gli avesse mai parlato del processo e se l'ex ministro dei lavori pubblici ne avesse discusso con lui. Casini ha precisato che Prandini non ha fatto pressioni su di lui e che con Cesa preferisce parlare di altro».
Al momento della sentenza di primo grado (21 giugno 2001) Prandini consegna alla corte un fax appena mandato al presidente della Camera Casini, e rilascia dichiarazioni spontanee per rimarcare che lui le tangenti non le prendeva per sé ma per il partito e in particolare per la sua corrente (Forlani-Casini). I giudici non apprezzano il sottile distinguo e gli danno sei anni e quattro mesi, e a Cesa tre anni e tre mesi, entrambi per corruzione aggravata.
Casini non commenta. Ma appena scatta la prescrizione fa eleggere Cesa in Parlamento, e senza avergli mai chiesto (lo ha giurato in tribunale) com'era andata con quei borsoni di banconote che portava nell'ufficio del ministro dei Lavori pubblici. È la peculiare grandezza del democristiano di razza che nulla volendo sapere attraversa la tempesta Mani pulite immacolato, come creatura nata senza peccato.
Fa lo stesso anche con Totò Cuffaro, l'ex governatore della Sicilia condannato nel 2011 a sette anni per favoreggiamento della mafia. Non si sporca le mani con i fatti. Prima mette la mano sul fuoco per l'amico "vittima di una macchinazione", poi va in tv e quando Michele Santoro gli chiede se, in caso di condanna, ne trarrebbe anche lui le conseguenze, risponde deciso: «Questo è ovvio. Sarei in condizione di chiedere scusa, poi deciderò al momento giusto».
Al momento giusto Casini si vaporizza. Ignora il merito (Cuffaro non è condannato per un teorema ma per aver fatto sapere al boss Michele Guttadauro che la Procura gli aveva piazzato una "cimice" in casa), e a chi gli chiede se non sia arrivato il momento di chiedere scusa replica che il suo amico siciliano subito dopo la sentenza della Cassazione si è consegnato spontaneamente in carcere, quindi «ha dato una lezione di dignità enorme, ha dimostrato stile e rispetto per le istituzioni».
Alla fine sembra che il vincitore sia il condannato, e c'è una logica in tutto questo se è vero che dopo dieci anni, di cui cinque in carcere, Cuffaro, pur ancora privo dei diritti politici, torna alla ribalta presentando liste con il simbolo della Dc alle amministrative siciliane dove ottiene carrettate di voti nostalgici.
Tra diavolo e acqua santa
Per Casini la vocazione di mediare sempre a qualunque costo e tra qualsiasi cosa, anche tra il diavolo e l'acqua santa, raggiunge l'apoteosi nella capacità di interporsi anche tra il favoreggiatore della mafia e il codice penale: «Ho sempre creduto nella sua innocenza ma rispetto la sentenza del tribunale», dice come se avesse trovato un punto di equilibrio. Quindi crede ancora o no alla innocenza di Cuffaro? Sembra che preferisca evitare il problema. Si può essere amici di uno che aiuta il boss mafioso a eludere le indagini? Umanamente sì. E infatti va a trovarlo regolarmente in carcere, «non me ne vergogno, è un mio dovere morale, è una questione di umanità».
Casini non ha mai nascosto che il suo imperativo politico, fin dai giorni tremendi di Mani Pulite, è pensare al futuro proprio prima che a quello del paese. «Ero angosciato dal destino della mia comunità politica e mio. Per anni sono stato terrorizzato di finire sul binario morto», ha ammesso.
Interessante metafora ferroviaria per uno che fin dal primo giorno si è sempre assicurato una poltrona in prima classe e l'ha difesa con i denti: «La politica è maestra di vita. Sopravvivi se hai le necessarie qualità».
Potere senza princìpi
L'inizio è a Bologna, figlio di un professore democristiano, laurea in giurisprudenza e subito eletto in consiglio comunale, poi nel 1983, a 27 anni, è già deputato nella squadra di Toni Bisaglia, leader della Dc veneta e soprattutto della corrente dorotea, grande centro e vera pancia della Dc.
L’aggettivo doroteo ormai definisce proverbialmente una politica per il potere e senza principi, una moderazione imperturbabile e incline alla mediazione, alla costante ricerca dell’equilibrio. Pier è il più doroteo dei dorotei e la sua indole lo spinge fin da giovane a sprigionare raffiche di supercazzole attentamente studiate per non dire niente che provochi il sia pur minimo dissenso.
L'agenzia Ansa ospita regolarmente le sue esternazioni a nome di Bisaglia destinate agli indigesti "pastoni" politici dei quotidiani. Il tono è quello perentorio di chi te le canta chiare. Riesce a non dire niente con solennità.
Dice che «il prossimo consiglio nazionale della Dc è un'occasione da non disperdere per rilanciare l'iniziativa del partito», che «il vero problema è oggi quello di assumere provvedimenti impopolari ma necessari per non compromettere le possibilità di ripresa del nostro paese», che «è necessario rilanciare all'interno del partito un nostro dibattito che porti ad un effettivo chiarimento politico», che «si tratta di promuovere una nuova fase di elaborazione per fare fronte alle esigenze poste dalle mutazioni nella società».
Usando una vecchia tecnica, basta invertire il senso di queste frasi (provate a dire: si tratta di evitare una nuova fase di elaborazione) per scoprire che non dicono niente.
Secondo la leggenda Bisaglia diceva di Casini e Follini: «Ho due discepoli, uno è bello, l’altro, è intelligente». Francesco Cossiga (democristiano della corrente Aldo Moro, presidente della Repubblica dal 1985 al 1992), uomo capace di odiare come solo i veri democristiani sapevano fare, riteneva che Pier fosse meno intelligente ma più furbo. Gli rinfacciava perfidamente «la sua presenza costante di allievo al fianco di Gianni Prandini in tutte le occasioni politiche e private», mentre l'ex ministro era sotto processo per corruzione, e quindi sottintendendo ancora più perfidamente l'abilità di aver schivato ogni minimo schizzo di fango, una capacità che l'acido presidente sassarese cristallizzò nell'immortale soprannome Pierfurby.
Fatto sta che il 24 giugno 1984 Bisaglia muore a 55 anni in modo inopinato per un democristiano ex seminarista: è sulla barca da 22 metri della ricca moglie Romilda Bollati di Saint Pierre, sposata un anno prima, un'onda improvvisa lo fa cadere, batte la testa, finisce in mare e annega prima che il personale di bordo possa soccorrerlo. Il mondo democristiano impazzisce.
Tutti i capi, a cominciare dal presidente del partito Flaminio Piccoli che con Bisaglia condivideva la guida dei dorotei, si lanciano nell'elogio funebre mettendo al primo posto tra le qualità del defunto, democristianamente, "le grandi doti di equilibrio". Indro Montanelli, che non ha mai perdonato alla Dc di aver affogato nell'acqua santa l'anima reazionaria a lui cara della piccola borghesia italiana, nota ferocemente nella sua celebre rubrica "Controcorrente" che la scelta delle parole non è la più azzeccata per il caso di specie.
Non vuole essere più di una battutaccia caustica ma spalanca in realtà l'abisso strutturale della Dc in cui è cresciuto Casini. La corrispondenza tra le parole e la realtà non solo non è ritenuta necessaria, ma addirittura assomiglia a un peccato di superbia intellettuale che espone a rischi, come dimostra il fatto che il più intelligente fa meno carriera del più bello.
Ed è grazie a questo scollamento dalla realtà che la Dc consolida insieme ai partiti alleati un sistema di potere scientificamente fondato sulla corruzione ma, giocando con le parole o parlando d'altro, finge di non saperlo. Fino al giorno in cui li arrestano quasi tutti e loro, davanti al magistrato che gli dice «lei ha rubato» rispondono «ma non per me, per il partito, sono un galantuomo». Purtroppo per loro il codice penale non prevede la scriminante del «rubare non per sé ma per il partito», così la Dc viene archiviata (anche ingiustamente) come una banda di ladri.
La vocazione del satellite
Casini nel frattempo ha già reagito da par suo alla morte del capocorrente convertendosi in pochi giorni da «vicino alle posizioni di Bisaglia» a «vicino alle posizioni di Forlani», secondo quel linguaggio meravigliosamente ipocrita che finge di alludere a posizioni politiche, in realtà ignote anche ai diretti interessati, mentre misura le posizioni di potere. Il metodo è questo («sopravvivi se hai le necessarie qualità»). Casini sa sempre scegliere l'orbita giusta perché ha la vocazione del satellite, come diceva Cossiga.
Nel 1994 fonda con Clemente Mastella il Ccd, partito di ex democristiani che si fanno satelliti di Silvio Berlusconi. Ma all'interno del Ccd è satellite dello stesso Mastella, che gli rinfaccia di non avere più voti e di farsi eleggere al sud, in Puglia, dai voti del ras di Ceppaloni. È un'abilità anche quella. Casini è un grande centrocampista che vede il gioco e trova sempre qualcuno che gli compra il cartellino e gli procura la rielezione: dopo la Puglia riesce a farsi eleggere nel Lazio, in Lombardia, in Liguria. Quando cade Berlusconi si accasa con Mario Monti e anche nel 2013 riesce a rientrare in Parlamento. Poi l'ultimo magistrale trasloco.
Nel 2016 Cesa, sempre lui, il migliore amico, segretario del suo partito che adesso si chiama Udc, si schiera con Berlusconi per il No al referendum istituzionale di Matteo Renzi. Casini si mette al vento del cambiamento, esce dal partito che ha fondato e si schiera con Renzi. Il quale lo ripaga un anno dopo, autunno 2017, affidandogli il delicato compito di presiedere la commissione parlamentare d'inchiesta sulle banche.
Il segretario del Pd vuole che i lavori siano orientati più contro gli errori della Banca d'Italia che contro i banchieri bancarottieri, Casini lo asseconda da professionista, con abilità ed equilibrio.
Non si fa mai cogliere in fallo e fa una sola concessione allo spettacolo il giorno che, durante una seduta, si lascia andare a una spassosa presa in giro del capo ufficio stampa di Bankitalia Antonella Dragotto, il cui fratello era stato assunto in tempi sospetti dal boss della Popolare di Vicenza Gianni Zonin, super protetto dalla Vigilanza.
Appena finiscono i lavori della commissione parlamentare è tempo di elezioni, e Renzi per le politiche 2018 elargisce a Casini un seggio senatoriale sicuro nella sua Bologna, dove non veniva eletto da 25 anni.
L’uomo di Rignano sull'Arno, più cinico e grossolano, lo sfotte: «Siamo riusciti a far diventare quasi comunista anche Casini». L'ex giovane anticomunista non fa una piega e si fa fotografare sotto la foto di Antonio Gramsci: «Che effetto mi fa l'essere in una casa del popolo? Di stare a casa mia, nella mia città tra la gente che conosco da 30 anni con cui non ho condiviso dei progetti politici e oggi condivido un'idea di fondo: fermare i barbari che sono Salvini e 5 Stelle».
Poi la sua indole lo indurrà a cambiare idea sui 5 Stelle, certo un po’ barbari, ma perché non mediare anche con loro? Così, mentre muore il governo Conte azzoppato da Renzi per fare posto a quello di Draghi, Casini si lancia in un estremo tentativo di riallacciare il dialogo tra Italia Viva e il premier uscente: «La fretta è una cattiva consigliera, quanto il risentimento. La strada per riannodare i fili è lunga, tortuosa, in salita, faticosa. Ma è l'unica giusta».
Naturalmente non succede niente, però il nostro si è ancora una volta posizionato. Un uomo così bravo a rendersi pronto per tutte le stagioni basta un attimo per trovarselo al Quirinale per davvero. Perché Pier è uno di noi, il mediocre di successo che forse gli italiani desiderano e che probabilmente si meritano.
© Riproduzione riservata