- «Quello che ho scritto non è la verità. È il mio lascito, la mia elaborazione del lutto, è il mio testamento», dice Achille Occhetto nel suo libro Perché non basta dirsi democratici. Ecosocialismo e giustizia sociale.
- In controtendenza con lo spirito (e la moda) del tempo imbocca il sentiero eretico di una rilettura del concetto di socialismo. «Quello che è intollerabile è che, qualora lo si consideri morto, lo si faccia senza una degna e motivata sepoltura».
- L’appello è a guarire una «malattia della politica» figlia del vuoto di cultura, sguardo presbite, ambizione. Un vastissimo programma. Il testamento (politico) dell’ultimo leader comunista ci raccomanda la cosa più semplice: di fare presto perché è già molto tardi.
Achille Occhetto, classe 1936. Segni particolari: nel 1989 ha consentito al Partito comunista (quello di Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Luigi Longo e Enrico Berlinguer) di non rimanere travolto dal crollo del Muro di Berlino e dalla fine del “secolo breve”. Per quella sua intuizione vi è stato chi per decenni gli ha reso merito e chi lo ha scomunicato a vita. Nel mio piccolo appartengo alla prima schiera, senza dubbio la più folta e tutto sommato quella che la storia ha riconosciuto come giusta.
Al pari di ogni grande svolta, e quella senza dubbio lo fu, l’artefice ne portò il peso quasi per intero, comprese le forti passioni che scandirono i vari passaggi, dal discorso ai partigiani della Bolognina con l’annuncio che «tutto poteva cambiare» sino allo svelamento del simbolo della Quercia.
Il divorzio
Per una ventina di mesi il popolo comunista discusse, litigò a volte in modo feroce, alla fine votò e decise che il “nome” sarebbe cambiato per corrispondere alla “cosa”. Di lì a pochi anni la parabola del leader che si era sobbarcato l’onere della rottura divorziò dalla guida del partito che aveva contribuito a fondare.
Accadde per ragioni diverse, in parte figlie di risultati deludenti sul fronte elettorale (nel marzo del 1994 Silvio Berlusconi vinceva le sue prime elezioni), in parte per una lotta politica che vide incarnarsi nel dualismo tra Massimo D’Alema e Walter Veltroni prospettive diverse sull’identità che il nuovo soggetto doveva assumere.
Il punto è che sulla “cosa”, su natura e valori della sinistra del nuovo corso, Achille Occhetto da quella stagione in avanti ha continuato a riflettere. Lo ha fatto scrivendo saggi sempre meno ancorati all’agenda del semestre e via via volti a scavare nelle pieghe di un pensiero politico che il tempo avrebbe impregnato di retoriche privandolo di visione.
Per la precisione, di visione e di un lessico che corrispondesse alla “storia in atto” ed è proprio con quest’ultimo snodo che si misura il libro appena uscito (Perché non basta dirsi democratici. Ecosocialismo e giustizia sociale, Guerini e associati).
Titolo programmatico si potrebbe dire, e in certo modo lo è a partire dalla premessa, quel ritenere il solo appellativo “democratico” insufficiente a dar conto tanto dei mutamenti accaduti (dall’imporsi della fine dell’antropocene, il dominio umano sull’ambiente terrestre, al controllo della sfera vitale di miliardi di persone con algoritmi sofisticati e una corteccia informatica globale), quanto delle risposte ideali, culturali e di merito che questo “mondo guasto” (copyright Tony Judt) chiede oggi a una sinistra degna del titolo.
Una rielettuta eretica
In controtendenza con lo spirito (e la moda) del tempo Occhetto imbocca il sentiero eretico di una rilettura del concetto di socialismo. E qui, volendo, una legge del contrappasso affiora se si torna alla motivazione che la svolta dell’89 sorresse, l’idea di oltrepassare la sinistra novecentesca senza scomunicare il comunismo (italiano) e la socialdemocrazia di impianto europeo nella ricerca di un approdo diverso per i valori che quelle tradizioni avevano ispirato.
L’appello di Norberto Bobbio a non considerare archiviate dalla storia le cause della lotta per l’uguaglianza era ancoraggio per quella prospettiva. Pesò allora il conflitto frontale tra i comunisti e il socialismo craxiano, cioè fu la frattura a sinistra a impedire un approdo naturale al dirsi una volta per tutte “socialisti”?
Impossibile negarlo anche se - e il saggio non è reticente sul punto - lo stesso socialismo riversato nel Pse (Partito del socialismo europeo) si è rivelato più una sede dove scambiarsi reciproche informazioni che il luogo deputato a coltivare l’identità del termine nella nuova scena.
«Quello che ho scritto non è la verità. È il mio lascito, la mia elaborazione del lutto, è il mio testamento», così le righe finali del volume rubricate alla voce “commiato”. Leggerle fa riflettere, anima domande, ma a risalire la corrente del sentiero accennato a emergere non è una testimonianza intima sul rimpianto per quanto fu o sul rimorso per ciò che non è stato.
La fatica, in questo degna di ascolto e, parlo per me si capisce, di ammirazione, è nella volontà di connettere la matrice del socialismo con un tempo storico, il nostro, che sbrigativamente, e volgarmente, ne ha spiantato le radici.
Socialismo senza sepultura
In questo senso la denuncia suona sferzante, «quello che è intollerabile è che, qualora lo si consideri morto (il socialismo, ndr), lo si faccia senza una degna e motivata sepoltura, come viene fatto disinvoltamente a sinistra». Difficile equivocare!
Fissato il titolo, la trama persegue l’obiettivo. Non sta lì a indugiare su errori e rimozioni del passato, sceglie di aggredire il presente senza sconti verso parole (lotta, conflitto, radicalità) oscurate o dissimulate dietro l’alibi di un realismo accomodante.
Quest’opera di ricucitura, di riconnessione tra un “prima” e un “dopo”, Occhetto la compie muovendo da lontano, parecchio lontano. In particolare da Antonio Labriola e una raccolta di saggi sul materialismo storico dove a colpirlo è la riflessione su socialismo e filosofia costruita in un “fitto dialogo” con Georges Sorel.
Di quel discorso a Occhetto preme il nesso tra un socialismo «utopistico…estemporaneo, visionario» e la sua occorrenza «pratica», il tradursi in movimento di liberazione. Da lì, ancora Labriola approccia la centralità antica del lavoro come «necessità intrinseca…del vivere sociale» sino a tracciare, in secolare anticipo sul calendario, l’abbandono dell’utopia secondo cui il socialismo (italiano) avrebbe potuto farsi leva per «rovesciare il mondo capitalistico».
Leggerlo mi ha ricordato l’aneddoto che attorno alla metà degli anni Ottanta vide Claudio Napoleoni rispondere più o meno allo stesso modo a chi polemicamente gli chiedeva «dove fosse la porta» (sottinteso, per uscire dal capitalismo). Al che la replica dell’economista fu che non c’era nessuna porta da varcare perché la sfida stava nel separare più nettamente la società dal mercato.
Un sogno necessario
Conferma ancora una volta di un movimento tutt’altro che impermeabile all’urto di battaglie e contraddizioni. In altri termini è sempre stato il corso dell’esperienza storica a imporre alla politica, al pensiero politico, una lettura non statica del conflitto tra capitale e lavoro, del valore sociale dell’impresa, dei canali di accesso alla cittadinanza.
Per la sinistra abdicare al compito equivale a negarsi in natura contentandosi di assecondare il flusso degli eventi, ma senza un popolo da emancipare e un’identità da costruire. Siccome però il «socialismo rimane un sogno necessario» la seconda parte del saggio ne indaga le potenzialità vitali, insomma ricolloca quel bisogno nel futuro e di questi tempi il solo proposito somiglia a un’impresa talmente ardita da apparire romantica.
Sono capitoli dove Occhetto declina l’idea di «un autentico riformismo», anche qui scegliendo la leva in grado di smuovere il resto. In questo caso capire che le «forze motrici del cambiamento… non si trovano più concentrate in una sola classe» né dentro il blocco sociale della seconda rivoluzione industriale.
Quelle forze intrecciano oggi il culto della libertà e diritti individuali e civili con l’obiettivo di «collocarsi al di sopra delle desuete barricate di parte», ma, attenzione, riscoprendo una radicalità dei principi a lungo sviata.
Per riuscirci serve un “salto di civiltà” e il passaggio da una “solidarietà della paura” a una “sociale” inevitabile premessa del contrapporsi di visioni alternative della democrazia, del valore del lavoro, del potere non più riducibile alla sola governabilità e di quell’ansia di trasformazione della società che mai potrà privarsi dell’alleanza tra scienza e discorso pubblico.
Guarire dalla politica
L’appello è a guarire una «malattia della politica» figlia del vuoto di cultura, sguardo presbite, ambizione. Per altro sapendo che non basterà scolpire la sola identità della sinistra, servirà ridefinire l’intero arco democratico entro cui operare. Vasto, vastissimo programma, non vi è dubbio, anche se la domanda residua è un’altra: al punto dove ci troviamo se ne può prescindere?
La risposta che l’ultimo leader comunista ci consegna basterebbe da sola a convincere del perché non sia possibile farlo. Certo, una resa dei conti la si può sempre rinviare. Ma fino a quando? Al fondo il testamento (politico) di Achille Occhetto ci raccomanda la cosa più semplice: di fare presto perché è già molto tardi.
© Riproduzione riservata