Mentre lei «intreccia destini», offre «una casa al senso di sconcerto», «apre la possibilità alle sfide», invoca «un partito che sappia curare le ferite», che si «ricongiunge con chi non si è sentito rappresentato», «come un ricongiungimento familiare», lui semplifica al massimo le formule, «il Mezzogiorno è il motore da cui far ripartire il paese», «serve un partito robusto», l’ha detto ieri all’assemblea nazionale, «laburista che promuove il lavoro, combatte la precarietà e investe in formazione», e con benevola malizia verso le espressioni acrobatiche dell’altra, teorizza un partito «che abbia un linguaggio comprensibile a chi ha due lauree come a chi non ha potuto studiare», dirigenti «che in trenta secondi si capisca cosa dicono».

Lei chiede il voto online per le primarie, lui fa dire ai suoi che «noi dobbiamo guardarci in faccia, non isolarci dietro una scrivania e votare da lì come fanno i grillini». Lei incontra ragazzi e ragazze con i capelli verdi che progettano blocchi delle autostrade, lui sindaci e sindache che governano e combattono con lo smaltimento dei rifiuti. Lei chiede incontri al capo della Cgil Maurizio Landini, lui non nasconde i suoi rapporti cordiali con il capo della Confindustria Carlo Bonomi.

La coppia di opposti

Quello del Pd è il congresso più pazzo del mondo, ed è molto meno noioso di come viene raccontato dai giornalisti scafati. Si dà regole per la vertigine di rimangiarsele, e combatte le correnti che però, scomposte e ricomposte, sono le sole rimaste in piedi di tutta la baracca. A spingere avanti la trama del romanzo democratico verso il finale dei gazebo del 26 febbraio è la coppia degli opposti antropologico-politici Elly Schlein-Stefano Bonaccini. Un grande classico: l’idealista e il pragmatico, la movimentista collettiva e il dirigente professionale, l’eroina di un mondo nuovo e il campione di quel che c’è, anzi di quel po’ che resta.

Proprio per questo viene da chiedersi se la domanda dello sfiduciato popolo democratico, terrorizzato da allarmi apocalittici («È in gioco l’esistenza del partito», Gianni Cuperlo, candidato anche lui) è davvero se è meglio una svolta radicale o una sicura guida al centro. Che non sia un’altra, più di fondo, del tipo “a chi affideresti il futuro di un ex grande partito ormai scassato e traballante”? Oppure un’altra ancora, ancora più terra terra, del genere, se non tale appunto, “da chi dei due principali aspiranti alla segreteria compreresti un’auto usata”?

Bonaccini è sicuro di sapere la risposta. Che è, più o meno: la politica è palla lunga e pedalare. E lui pedala parecchio. Gli ultimi dieci giorni, per esempio: il 13 gennaio è stato in Umbria, il 14 in Sardegna, domenica scorsa in Campania, lunedì in Veneto, martedì nelle Marche, domani in Sicilia. Una media di 600 chilometri al giorno. Ha avvertito i suoi che entro la fine della campagna elettorale toccherà tutte le regioni. E «il tour delle cento città» finirà intorno alla centocinquantesima, non prima. «Ma siamo abituati, lavora così da sempre», sospira il suo portavoce Federico Del Prete.

Anche Schlein ovviamente si è messa i piedi in spalla per recuperare consenso. Ma lui, Bonaccini, ha programmato un lavoro scientifico: batte i territori a tappeto, con metodo, senza lasciare spazio all’improvvisazione né all’approssimazione. E mentre gira, telefona, personalmente, a tutti quelli che potrebbero in via di ipotesi sostenerlo. Diciamo meglio: prima di lanciarsi nella corsa lo ha fatto con costanza, adesso più che altro riceve le telefonate di quelli che si offrono, per la umanissima ragione che chi cerca promesse, in qualche caso ne riceve, va dal papabile vincitore. Schlein lo capisce e manda a dire: «Un pezzo del gruppo dirigente ha preferito fare altre scelte, di certo io non sono una che offre posti, ma di costruire un posto nuovo».

Bonaccini è due volte presidente della regione Emilia Romagna e per questo è partito un pezzo avanti rispetto agli sfidanti, con una macchina organizzativa già ben collaudata, fra il suo incarico istituzionale e il comitato da candidato segretario. Ha uno staff di una quindicina di persone, fra comunicazione, social e “politici”. Quasi tutti emiliani – è un consiglio, evitare – come ai tempi di Pier Luigi Bersani e del suo «tortellino magico».

A capo c’è il suo uomo di fiducia Andrea Rossi, deputato e già sottosegretario regionale (curiosa istituzione introdotta da statuto in poche regioni, oltre all’Emilia Lombardia, la Calabria e l’Abruzzo), uomo-macchina della campagna elettorale per la rielezione a presidente. Con lui Davide Baruffi, ex orlandiano, che ha sostituito Rossi al sottosegretariato. Altri pilastri – tutti ragazzi nati a metà degli anni Settanta – sono Luigi Tosiani, segretario regionale Pd, e Alessandro Alfieri, che invece è di Varese, e che resta un po’ defilato perché è anche portavoce di Base riformista ma si sa che Bonaccini professa l’abbattimento delle correnti, come tutti a parole. E ancora: a lavoro per la corsa sono il sindaco di Firenze Dario Nardella e quello di Pesaro Matteo Ricci. E Brando Benifei, capogruppo della delegazione Pd a Bruxelles, coordinatore della mozione. E finalmente si arriva alle donne: l’eurodeputata Pina Picierno, casertana, è la candidata vicesegretaria, già franceschinianian. Sulla via della Toscana si incontrano la deputata fiorentina Simona Bonafé, già renziana della primissima ora, e Matteo Biffoni, sindaco di Prato.

https://desk-ext.editorialedomani.it/act/#/edit/onecms:1d934322-c397-4c20-b70f-d784f2759e4d

Amministratore caterpillar

Bonaccini, secondo i suoi, «è empatico, sa stare tra la gente, è molto popolare». In realtà è anche molto social, e sui social da questa settimana mette fuori i punti del suo programma, uno alla volta, titolo spiega proposta. I primi: qui occupazione femminile, reddito di formazione, lavoro, politiche industriali, ambiente. Promesse concrete, a volte persino un po’ terragne, non proprio roba che fa sognare ma avercene.

Il paradosso dunque è che lei, Schlein, che vorrebbe archiviare il veltronismo e il partito liquido (definizione smentita con stizza dai veltroniani) finisce per essere tacciata non solo di liquidità ma persino di volatilità. Un’accusa che non riesce ad evitare neanche avendo dalla sua parte il roccioso Andrea Orlando, il capo della sinistra laburista, che liquida la linea del candidato emiliano come «soluzionismo pragmatico». Elly gli dà ragione: «Sono d’accordo con te, Andrea, essere amministratrici e amministratori non è una linea politica», gli ha detto qualche giorno fa alla presentazione del libro di Goffredo Bettini (anche lui le ha espresso simpatia se non appoggio).

Walter Verini, ieri, ha avanzato qualche dubbio sul concetto di «partito degli amministratori» che in questo momento si porta molto nel Pd tendenza Bonaccini: sarebbe composto di sindaci, assessori e consiglieri – e filiere di portaborse e collaboratori talvolta travestiti da segretari cittadini o di regione – che nei famosi “territori” sostituiscono il partito: e quando perdono alle elezioni il partito non c’è più. Ma questa sarebbe un’altra storia.

Torniamo a quella di Bonaccini. Essere amministratori non sarà una linea politica, ma è un fatto incontestabile che lui, essendolo, viene percepito come uno «solido». Da tutti.

Basta sentire cosa dicono i suoi sostenitori. Nardella: «La sua campagna è molto incentrata sul valore dei territori, sulla energia degli amministratori locali che peraltro hanno relazioni forti con le comunità locali e la società civile e sul tessuto del partito. È una campagna che rimette al centro il partito solido, ma è anche una molto aperta alla società civile. Ma il suo progetto è un partito solido, in cui le persone in carne ed ossa costituiscono la base di fondo». Elisabetta Gualmini, europarlamentare: «Stefano è un politico appassionato e instancabile, abituato a battere palmo a palmo città, comuni, paeselli di mare e di montagna senza risparmiarsi. L’ho visto da vicino quando ero vicepresidente della regione Emilia Romagna. Per capire bene le cose o risolvere situazioni complesse andava direttamente in loco, incontrava le persone, le ascoltava. È abituato quotidianamente a incontrare sindaci, amministratori, consiglieri e cittadini. Sa parlare con tutti. E si fa capire. È una figura trasversale che allarga invece che restringere, parla sia al ceto produttivo che al giovane precario».

Ricci, che gli ha portato in dote i voti dell’Ali, l’associazione dei comuni a guida progressista di cui è presidente: «Stefano prefigura un partito popolare che guarda le persone negli occhi, non soltanto quando ci sono le campagne elettorali. E che è in grado di ascoltare le aspettative, le paure e i sogni e provare concretamente a tramutarli in politica. L’atteggiamento che hanno tantissimi sindaci. Non a caso la stragrande maggioranza di quelli di centrosinistra lo sostiene».

È la «consistenza» la ragione per cui anche Marco Meloni, braccio destro di Enrico Letta, ha dichiarato di votare lui alle primarie: «Ha il giusto grado di solidità».

Qui dobbiamo aprire una parentesi: Bonaccini, dopo essere stato bersaniano (ma in quegli anni in quella regione era difficile non esserlo) è stato renziano (negli anni in cui in quel partito quasi tutti lo erano); è accusato dagli avversari interni di essere ancora un renziano. E Matteo Renzi, con i cronisti al senato, qualche giorno fa si è anche cavato il gusto di darlo per vincente: «Bonaccini stravince. La Schlein non esiste, è un’operazione della gauche caviar».

Ex renziani sono molti dei suoi consiglieri, tosco-emiliano-renziano è il gruppo stretto dei suoi collaboratori, fiorentina la società che gli cura l’immagine, la Jump fondata dall’ex portavoce di Renzi Marco Agnoletti. Epperò Meloni è il più antirenziano degli antirenziani: braccio destro da anni dell’attuale segretario, capo della sua scuola di formazione, nella legislatura in cui Renzi. Poi venne escluso dalle liste delle successive elezioni politiche, con tipico gesto elegante renziano. Alle ultime, quando è stato eletto senatore, è stato accusato dagli ex renziani di essere rancoroso e di essersi preso qualche vendetta nella composizione delle liste. Con l’endorsement a Bonaccini, Meloni onora un’antica comunanza: intorno al 2010 i due facevano parte di un gruppetto scelto dentro maggioranza bersaniana, con loro c’era Maurizio Martina, Matteo Mauri e Roberto Rampi. Oggi al vecchio amico fa un regalone: con la sua persona gli fornisce uno scudo formidabile contro l’accusa di nostalgie renziane. E dire che in campagna elettorale Letta è stato il vero inventore della candidatura di Elly Schlein alla camera. La diversa scelta di campo, che ha conquistato molti lettiani, nasce anche da un lavorìo della portavoce di Letta, Monica Nardi, ed è fondata sull’affidabilità e lealtà dimostrata durante la navigazione difficile di Letta.

Sulla via Emilia a sinistra

Procedendo verso sinistra, per Bonaccini Piero Fassino ha mollato Dario Franceschini (con mezza Areadem): «A me pare la candidatura più solida per esperienza, capacità di governo, cultura riformista». «È la soluzione più solida» anche per Matteo Orfini, leader dei Giovani Turchi. Ma il colpaccio il presidente dell’Emilia-Romagna lo ha fatto portando con sé Brando Benifei, che all’inizio si era sbilanciato pro Schlein quando aveva riunito intorno a sé un gruppone di under 35 cui aveva dato il nome di Coraggio Pd. Benifei è stato fino a poco fa esponente dell’area Orlando. «Ci ho riflettuto», spiega ora, «ho grande stima per tutte le candidature in campo, ma mi sono convinto che oggi la persona meglio attrezzata per portare avanti il cantiere del nuovo Pd sia Bonaccini, per l’esperienza acquisita nella gestione di processi politici complessi e per la capacità di confronto con forze politiche diverse, dalla sinistra ai centristi. Mi pare che tante e tanti come me faranno la mia scelta». Benifei, che è diventato il coordinatore del programma della mozione – facendo aggrottare le sopracciglia a Enrico Morando, capofila dell’ala liberalsocialista di Libertà eguale – vira sul favorito su contenuti esibitamente antirenziani. Dice, per esempio, che di lui gli piace la nettezza del no alla disintermediazione e la propensione «al rapporto coi sindacati».

Tutti in barca

Il candidato non lascia niente di intentato. E imbarca tutti. Con le sue telefonate cortesi, schiette, amichevoli. Anche verso quelli e quelle che di default dovrebbero essergli ostili. Un lavoro di fino, da vero professionista della politica, che non concede nulla al caso e non dà niente per perso. Non solo con la sinistra interna al Pd ma anche mostrando interesse fuori dal Pd, verso la sinistra civica ecologista sparsa per il paese che ha un riferimento nel deputato europeo indipendente Massimiliano Smeriglio; che nel Lazio sostiene la lista Sinistra-Verdi con candidato presidente Alessio D’Amato (schierato a sua volta con Bonaccini, come il sindaco di Roma Roberto Gualtieri). «Le attenzioni fanno sempre piacere», ammette Smeriglio. «Ora siamo impegnati con le regionali. Certo è che porto sempre con me quella massima riferita a Michelangelo “ei dice cose, voi dite parole”. Ecco, per mia formazione sono attratto dal mondo solido piuttosto che dall’insostenibile leggerezza dell’essere».

La trappola dei notabili

Va tutto bene? I sondaggi vanno bene. I pronostici sono tutti per lui. I guai invece potrebbero arrivare proprio dall’affollamento dei notabili nelle liste che accompagneranno il candidato presidente alle primarie. E di notabili convertiti sulla via Emilia ce n’è veramente tanti: dal presidente della Puglia Michele Emiliano a quello della Campania Vincenzo De Luca, il cui figlio Piero è stato chiamato a coordinare le politiche per il Sud per la mozione.

L’aggravante è che a questo giro sarà sperimentato per la prima volta il listone unico, voluto dalla riforma dello statuto firmata da Nicola Zingaretti per (riecco la storia infinita) «combattere le correnti». Articolo 6, comma due: «In ciascun collegio può essere presentata una sola lista collegata a ciascun/a candidato/a alla segreteria». Insomma, visto che il candidato si è tirato con sé la qualsiasi, in ogni collegio dovranno accomodarsi nella stessa lista aspiranti membri dell’assemblea nazionale che spesso sui territori si combattono da sempre, da amici (poco) nemici (parecchio). Anche in questo caso, tutta gente «solida», di una solidità che si misura in voti. In Campania, per esempio, si sfidano i De Luca’s con Umberto Del Basso De Caro; in Puglia il potentato di Emiliano con quello del sindaco di Bari Antonio De Caro; in Sicilia Peppino Lupo e il capogruppo alla regione Michele Catanzaro. Un ingorgo che può trasformarsi una sfida acchiappapreferenze. Ma anche scatenare zuffe, competizioni. E persino ritirate strategiche.

© Riproduzione riservata