La storia di due interruzioni di gravidanza, una volontaria e una dovuta a una patologia clinica, raccontati in prima persona perché nessuna debba mai sentirsi sola e il tema dell’accesso all’aborto possa diventare terreno di discorso politico: come la retorica della vita nascente è diventata un mezzo pericoloso per ostacolare il diritto alla salute delle donne
I continui attacchi ai diritti delle donne sono un fenomeno strutturale e imperituro, lontano da una qualsivoglia risoluzione. L’odissea per accedere al diritto all’aborto in Italia, perdura in un clima di totale impunità verso chi esercita forme di violenza sui nostri corpi, per questo ho deciso di raccontare le mie storie di aborto, perché la pratica del raccontarsi si intreccia al tema delle alleanze: non sentirsi sole e fare rete perché i trattamenti denigranti sui corpi delle donne possano venire alla luce. L’alleanza femminista ha fatto del racconto una parte fondamentale del percorso di liberazione collettiva dalle oppressioni che le donne vivono, ogni giorno, sul tema dei diritti negati.
A ventiquattro anni, infatti, decido di ricorrere all’Ivg (interruzione volontaria di gravidanza) e i problemi sono iniziati con la prima ecografia: la medica ha iniziato, senza il mio consenso, a farmi sentire il battito fetale, nonostante le mie rimostranze. Ha tentato subito di indirizzarmi al personale antiabortista: mi sono rifiutata, ma quante altre non ne avrebbero avuto la forza, sole, in quella stanza? Dopo il primo incontro, mi sposto in un altro ospedale per effettuare l’Ivg chirurgica: tornata in stanza, ricoverata nel reparto maternità, non mi hanno fornito nemmeno un assorbente ma solo teli tra le gambe, inascoltata nelle mie richieste di avere qualcosa per il dolore, arrivato solo ore dopo la richiesta e seguito da sbuffi e frasi come «poteva pensarci prima».
Nella stanza c’erano anche delle ragazze che non parlavano la lingua italiana, nelle mie stesse condizioni e solo quando, dopo ripetute richieste, hanno fatto entrare mia madre per seguirmi, lei ha potuto aiutare le altre compagne di stanza. Stacco, anno 2019, decido di portare avanti una gravidanza desiderata, ma le cose non funzionano e mi reco al pronto soccorso per forti dolori e perdite: mi dicono subito che non possono darmi nulla tranne il Buscopan, nonostante le Beta hCG (il valore che determina una gravidanza) stessero calando drasticamente.
La disumanità
Vengo ricoverata nel reparto, mentre mi contorcevo dal dolore: ho chiesto ripetutamente delle medicine più forti ma la risposta della ginecologa è stata «è una situazione dalla quale non si può tornare indietro ma non me la sento di darti altro, per me è ancora una vita fino a che le Beta non arriveranno allo zero». Il crocefisso che le dondolava al collo, lo ricordo nitidamente: mi sono infuriata, le ho detto che la vita che aveva davanti e di cui doveva prendersi cura ora era la mia, ben conscia che non ci fosse nulla da fare per fermare un aborto.
Ma l’accanimento è proseguito, mi ha comunicato che le sembrava strano non vedermi piangere e che mi preoccupassi solo del dolore fisico: non accettano che una donna sia consapevole di una situazione clinica e che abbia i suoi modi e i suoi tempi per elaborare un lutto. Le cose peggiorano e vengo operata d’urgenza per gravidanza ectopica, ma un mese dopo decido di scrivere una mail alla dirigente sanitaria, raccontandole l'accaduto, per fare in modo che quei trattamenti disumani non accadessero più a nessun’altra.
La dirigente mi invita ad un colloquio con le mediche e i medici presenti quella sera ma al momento dell’incontro, dopo il mio racconto, risponde piccata: «Le colleghe hanno seguito il protocollo e la loro coscienza: se non sai sopportare il dolore, non potrai mai diventare madre». Mi infurio, lascio la stanza e penso: non interessa come tu stia, se tu stia ricorrendo al diritto all’Ivg senza alcun dubbio o se tu stia perdendo un figlio desiderato: era diventata solo una scusa per impartire lezioni di vita, non richieste, su come si debba o meno essere madre.
Colpevolizzare
Dopo quel giorno, ho condiviso la mia esperienza con il collettivo di Non una di meno, per rendere politica la mia esperienza: sento, dunque, di dover raccontare questi episodi per far sentire meno sole le altre donne, perché dobbiamo a tutti i costi impedire che continuino ad accadere, perché il personale è politico e le risposte devono avvenire in modo compatto e radicale: restituite dalla singolarità alla collettività dei movimenti femministi, contro la disumanità.
Crolla così, rumorosamente, il fragile castello di carte della retorica antiabortista della “vita nascente”, usato come leva morale e politica per giustificare forme inaudite di violenza sui corpi delle donne, per colpevolizzarle e per tentare di togliere loro il diritto all'autodeterminazione sul loro corpo e la loro salute. Rimane il presente da costruire e inventare, che già racconta di come la narrazione sia terreno di condivisione e liberazione, contro una società che vorrebbe le donne come soggetti muti e dimessi, che invece mettono in campo pratiche di alleanza e di lotta, riprendendosi spazi di parola e di azione politica, per la tutela dei diritti e della salute, senza sconti e con orgoglioso fragore.
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