Percorrere oltre 300 chilometri per accedere a un servizio che dovrebbe essere garantito per legge su tutto il territorio nazionale. Accade a migliaia di donne in Italia, costrette a spostarsi per poter accedere all’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg).

Fuori dalla propria provincia o dalla propria regione, senza alcuna assistenza da parte del servizio sanitario nazionale. È un sintomo che descrive lo stato dei diritti: più chilometri si è costrette a percorrere, più quel diritto è diventato di difficile accesso e quindi non garantito a tutte.

La battaglia femminista degli anni Settanta chiedeva che l’aborto fosse «libero e sicuro». Oggi, nonostante la legge 194 del 1978 preveda che ogni struttura sanitaria garantisca gli interventi di Ivg – «anche attraverso la mobilità del personale» – questo non avviene, e occorre spostarsi. Un fenomeno così presente da essere tracciato anche nella relazione al parlamento del ministero della Salute. Secondo i dati ministeriali il tasso di emigrazione per abortire fuori regione è dell’8 per cento. 

«Dai numeri ufficiali non viene approfondita la motivazione della migrazione», evidenzia Chiara Fonzi, attivista di Laiga (Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della 194). «Non viene spiegato perché una persona si sposta da una provincia all’altra e un’analisi più accurata dovrebbe comprendere questi dati». 

La scelta di migrare per accedere a un servizio può dipendere da motivi diversi e, senza un’indagine statistica, è complicato ricostruire il quadro nazionale. «Magari ha avuto una brutta esperienza in un ospedale specifico, oppure non ha voglia di incontrare persone conosciute in sala d’attesa», spiega Fonzi. La scelta può anche essere dettata dalla difficoltà di accedere al servizio richiesto, all’interruzione di gravidanza o, nello specifico, all’abortofarmacologico. E i numeri lo dimostrano.

Migrazione interna

La possibilità di esercitare l’obiezione di coscienza prevista dalla 194 preclude di fatto, in diverse strutture e in regioni, il diritto all’aborto. Quasi 7 ginecologi su 10 in Italia sono obiettori e in alcune regioni, come Sicilia, Puglia, Abruzzo, raggiungono oltre l’80 per cento. Migrare quindi è l’unica scelta, anche se si vuole abortire con un metodo meno invasivo del raschiamento, quello farmacologico.

Raccomandato anche dall’Organizzazione mondiale della sanità, questo metodo si basa sull’utilizzo di due farmaci: la Ru486 e una prostaglandina, inseriti dall’Oms tra i farmaci essenziali per la salute riproduttiva nel 2006 ed estesi dal ministero della Salute nel 2020 in regime ambulatoriale fino alla 9 settimana. In Italia però viene garantito solo nel 45,3 per cento dei casi. 

«Ci arrivano segnalazioni di persone che vorrebbero la farmacologica e non riescono ad avere accesso nel loro ospedale», dice l’attivista di Laiga, evidenziando come, molto spesso, la mancanza di trasparenza sull’obiezione di coscienza provoca disservizi «creando anche confusione nella persona che non sa dove andare o come muoversi». Un disservizio, nella buona o nella cattiva fede, che però ricade sull’utenza finale: «Ci si ritrova stremate, rimbalzate da una parte all’altra», spiega Fonzi, «per un servizio, quello dell’Ivg, che andrebbe eseguito il prima possibile, con meno attesa possibile. L’ideale sarebbe, dopo l’esecuzione del servizio, la compilazione di un modulo di feedback da parte dell’utenza, per lasciare che sia chi ha abortito a parlare dei disservizi incontrati nel percorso, dal certificato alla contraccezione post aborto».

La difficoltà di capire quali strutture praticano l’Ivg, crea ulteriori ritardi nell’accesso al servizio, che possono ad esempio precludere il ricorso al metodo farmacologico. Ci sono casi in cui si chiede alla donna di tornare la settimana successiva, o in cui si posticipa l’appuntamento sostenendo l’indisponibilità del medico. «E ci si chiede: aspetto una settimana oppure faccio 50 chilometri per andare da un’altra parte?», continua Fonzi. 

In altri casi invece sono gli operatori sanitari a mandare le donne in strutture distanti. Una testimonianza raccolta dal movimento “Ivg sto benissimo” racconta che una dottoressa obiettrice, di un consultorio nel Lazio, ha mandato a Latina una ragazza per fare un’interruzione farmacologica. «So che a Formia è possibile fare l’Ivg, circa 10 chilometri di distanza da me», scrive la ragazza alla pagina Instagram, «ma non so come mai mi abbiano detto di andare fino a laggiù». 84 chilometri di distanza da percorrere per ricevere due somministrazioni, in tutto 336.

Numeri «utili per valutare l’eventuale carenza di servizi Ivg in alcune aree del paese, con conseguente flusso migratorio verso altre regioni», scrive il ministero nell’ultima relazione disponibile, con i dati del 2021, «ma richiedono grande attenzione nel controllo di possibili fattori confondenti (ad esempio donne che studiano o lavorano in altre regioni senza aver modificato la residenza)».

Le regioni

Tra le regioni con il più alto tasso di emigrazione, le Marche, con l’11,3 per cento. La provincia di Pesaro poi raggiunge il 15,9 e, nello stesso territorio, il 62,5 per cento degli aborti avviene con il raschiamento. L’uso diffuso di questa tecnica, secondo il ministero della Salute nel 2021, costituisce una «chiara inappropriatezza assistenziale meritevole di attenzione». La maggior parte delle donne residenti si spostano infatti nelle regioni confinanti, Emilia Romagna e Abruzzo, che presentano il più alto tasso di immigrazione, rispettivamente il 10,4 e il 10,5. 

Dalla Basilicata emigrano poi il 34,3 per cento delle donne e dal Molise il 23,1. Quest’ultima registra anche un alto tasso di migrazione interna al territorio regionale, del 27,7 per cento. Laiga riceve segnalazioni da moltissime parti di Italia, fa sapere Fonzi, anche in regioni non amministrate dalla destra come la Campania, dove nel 2022 1.492 donne si sono spostate dentro la regione e 404 al di fuori. «Se una persona non ha la macchina, spesso non riesce ad andare a Napoli, Avellino o altri posti dove poter abortire con la farmacologica», conclude Fonzi.

Sono esperienze che coinvolgono tutte le regioni – Sicilia, Veneto, Lombardia – e il Lazio, tra le poche regioni ad aver recepito le linee guida ministeriali del 2020 per la somministrazione del farmacologico nei Consultori, in cui però nel 2022 645 donne si sono spostate per abortire. Con gli ultimi provvedimenti del governo, e l’apertura delle porte dei consultori alle associazioni antiabortiste, i chilometri sono destinati ad aumentare. 

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