- Da sentimento a tradimento il passo è sempre sin troppo breve. Ma si può condannare il sentimento di chi spera nell’arrivo del nuovo? Sperare in una nuova politica. Sperare in persone di altri colori e terre, con alle spalle, spesso, storie drammatiche di fughe e povertà.
- Preferirò sempre, sempre, credere a un uomo animato da sentimenti universali, magari traditi da una condotta indegna, che affidami a chi di universale non ha niente da proporre ed è fiero di non averlo
- Questo articolo si trova sull’ultimo numero di POLITICA – il mensile a cura di Marco Damilano. Per leggerlo abbonati o compra una copia in edicola
13 ottobre
Un po’ come il primo giorno di scuola, funestato da un tempo non proprio amichevole, giovedì 13 ottobre è cominciata ufficialmente la XIX Legislatura italiana. Alle elezioni del 25 settembre gli elettori, dato oramai passato dalla cronaca alla storia, hanno scelto la coalizione di centrodestra, e in maniera ancora più decisa e convinta una politica, poi divenuta premier, e il suo partito: Giorgia Meloni. Fratelli d’Italia.
In quel giovedì piovoso del 13 ottobre, mentre alla chetichella, bardati contro i primi aliti di freddo e la pioggia, entravano nelle appropriate sedi istituzionali i deputati e senatori della nuova legislatura, spiccò su tutti il volto mogano, su abito blu scuro d’ordinanza, di Aboubakar Soumahoro, eletto alla Camera dei deputati nel gruppo Alleanza Verdi e Sinistra.
Il 13 ottobre, primo giorno di scuola, Soumahoro, proprio di fronte all’ingresso della camera, esibì fiero il pugno alzato e, cosa ancora più memorabile, un paio di stivali di gomma ai piedi. Niente di chic o griffato, ma le calosce tipiche di chi lavora nei campi, per proteggersi dall’acqua e dal fango.
Un deputato che varca la porta del palazzo di Montecitorio con la volontà di rimarcare questo segno di distinzione.
Come a voler dire, con la forza unica dell’immagine: sta entrando un uomo, un deputato, che per storia, colore della pelle e militanza lotterà per chi in Italia come nel resto del mondo vive dalla parte sbagliata della tavola, e dei diritti.
Non ho alcun dubbio a riguardo.
Per molti italiani, tutti quelli refrattari alla politica e alle sirene mediatiche che quotidianamente ne offrono lo spettacolo, quell’immagine di Soumahoro con pugno alzato e stivaloni ai piedi è stato una specie di folgorante primo incontro.
Non lo avevano mai visto, forse di sfuggita, forse nemmeno lui.
Perché non dobbiamo dimenticarci una cosa.
Quattro italiani su dieci non hanno partecipato alla votazione del 25 settembre, non hanno espresso una preferenza politica, e si suppone siano totalmente distaccati, digiuni, da tutto ciò che offre questo contenuto, la politica, sui vari canali d’informazione, tradizionali e digitali.
Dunque, perché quei quattro italiani su dieci avrebbero dovuto conoscere Soumahoro? O una delle tante nuove facce femminili e maschili appena ammessi ai palazzi della politica italiana?
Se dobbiamo pensare a questi disimpegnati cronici, non vi è dubbio che l’arrivo e l’ingresso a Montecitorio di Soumahoro sia stato quello più memorabile. Romantico. Significativo.
Da qui in avanti ogni parola ha un suo dritto e un suo rovescio. Una chiave di lettura chiara, costruttiva, e di contro una scura e distruttiva.
Appena vedo su display la foto incriminata di Soumahoro, lo dico senza vergogna alcuna, mi emoziono moltissimo. In un’epoca come la nostra, in cui il tema delle ricchezze spropositate, folli, e delle disuguaglianze che resistono, anzi, crescono di giorno in giorno, si fa più remoto e demodé, mi ha profondamente colpito vedere un uomo con quella determinazione, con quel simbolo stretto ai piedi, segno di un’appartenenza che si vuole rivendicare.
Mi ha fatto sperare in un ritorno, o se preferite in un nuovo inizio.
Un’epoca che torna a fare i conti con la propria coscienza.
Che educa all’uguaglianza, alla giustizia sociale, ai dati elementari che vogliono ogni uomo valere allo stesso modo, e dunque, con uguali diritti e doveri.
Proprio da quella foto, invece, i detrattori di Soumahoro e più in generale di chi appartiene a una certa visione politica, hanno iniziato a imbracciare i fucili e a fare fuoco.
Al nero, uno che ha alle spalle anni di lotte e militanza politica, mica uno scemo ingenuo preso per strada, va attribuito il premio di migliore presentazione della XIX legislatura. Un’operazione di marketing e comunicazione da genio assoluto. E giù deduzioni distorte a non finire, di comodo. Come se l’ipotetico calcolo politico fatto da Soumahoro nel presentarsi a quel modo fosse automaticamente prova di disonestà.
I detrattori della vicenda, invece, lo sanno perfettamente che la forza di un’immagine sta nella sua capacità comunicativa, a prescindere dai ragionamenti che l’hanno per così dire messa in scena. Anzi. In fondo, aver pensato a un’immagine potenzialmente memorabile da lasciare come segno di inizio di una nuova avventura è semmai prova di acume e lungimiranza, non automaticamente cattiva fede. È semplicemente la riprova di saper vivere questo presente che fa dell’immagine un monumento digitale. Vacuo, effimero e passeggero. Ma comunque fondamentale, memorabile.
Se dovessimo applicare questo metro di giudizio, ossia giudicare negativamente tutte le operazioni di comunicazione a partire dalle fotografie che hanno previsto una preparazione, un’idea di fondo, elimineremmo in pratica il nostro intero immaginario collettivo. O poco meno.
Dunque, se si parla di comunicazione, e di questo si tratta, Aboubakar Soumahoro ha dimostrato tutta la sua intelligenza.
La sua immagine è rimasta viva nel cuore anche dei meno politicizzati, anche di quelli che a votare non sono nemmeno andati.
24 novembre
Nel giro di un mese e dieci giorni, Aboubakar Soumahoro passa da volto nuovo della politica a ennesimo caso da affidare alla cronaca lapidaria, alle rivelazioni sfinite su carta stampata e televisione. Il clamore è talmente forte da suggerire a Soumahoro di autosospendersi dal gruppo Verdi-Sinistra italiana.
Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, rispettivamente portavoce di Europa Verde e segretario di Sinistra italiana, spiegano che il suo gesto è assolutamente volontario, in attesa di arrivare a una maggiore chiarezza rispetto a tutta la situazione.
Aboubakar Soumahoro, dunque, da emulo di Giuseppe Di Vittorio e le sue lotte, ricordiamo che nel 2020 aveva fondato la Lega dei braccianti intitolandola proprio al grande sindacalista, diventa losco figuro al centro di oscuri traffici, lei e ben più di lui le sue donne: la moglie e la suocera. Su di loro la Procura di Latina apre un fascicolo legato a due cooperative, la Karibou e la Consorzio Aid, per il mancato emolumento di diversi stipendi non erogati a 26 dipendenti.
Da questa prima notizia, a cascata ne arrivano molte altre. La sintesi è questa: la gestione di Aboubakar Soumahoro e della sua famiglia delle varie attività a loro intestate e dei fondi a esse riconosciute è tutt’altro che cristallina. Anzi, semmai oscura e discutibile. E ogni giorno che passa rafforza, purtroppo, questa tesi.
Anche la bravura di Soumahoro nel saper gestire la propria immagine, con garbo, semplicità e non meno serietà, si infrange progressivamente. Con la produzione di video a dir poco evitabili.
Verrebbe da dire: tutto secondo i piani.
Almeno secondo i piani di un paese, il nostro, da trent’anni a questa parte.
La costruzione di una figura credibile, dotata di talento ed empatia, che sale in vetta al gradimento di un paese, o di una parte di esso, per poi sprofondare nel giro di qualche mese.
La lista, da destra a sinistra, potrebbe riempire un’edizione intera del giornale.
Per quel che mi riguarda, mi fermerò a tre esempi, diversissimi tra loro per cariche ricoperte e appartenenze, per cultura e destino.
Mimmo Lucano. Matteo Renzi e, in ultimo, proprio Aboubakar Soumahoro.
Tre storie diversissime che hanno in comune questo tratto: l’enorme infatuazione che la loro attività ha prodotto nel cuore di tanti italiani.
Il primo, Mimmo Lucano, per uno sguardo d’insieme tradito forse dall’irruenza della passione, dal non voler sottostare ai gangli della burocrazia infinita.
Il secondo, Matteo Renzi, l’unico con certificato di pedigree politico, per aver piegato il suo talento all’egotismo straripante, al voler essere sempre e comunque il più bravo di tutti.
Infine, Aboubakar Soumahoro, di cui non è ancora chiaro ruolo e responsabilità nelle eventuali manchevolezze, e reati, commessi da lui e dalla sua schiera.
In molti potranno dire, anche a ragione, che questi tre nomi, messi l’uno dietro l’altro, poco c’azzecano fra loro, e che l’accostamento non tiene.
È vero. A tenere assieme queste figure non c’è nulla di razionale, semmai l’opposto. Anzi, sicuramente l’esatto opposto.
È una questione sentimentale. Di pancia.
Che spesso, purtroppo quasi sempre, si infrange contro la realtà dei fatti.
Perché da sentimento a tradimento il passo è sempre sin troppo breve.
Ma si può condannare il sentimento di chi spera nell’arrivo del nuovo? Di donne e uomini in grado con il loro slancio, la loro passione e preparazione, di raddrizzare lo sgangherato orizzonte del nostro paese?
Credere a Aboubakar Soumahoro, a prescindere da quello che emergerà concretamente a suo debito, è semplicemente il gesto di tutti quelli che non si arrendono alla realtà dei fatti ma si concedono ancora alla speranza.
Sperare in una nuova politica, fatta da politici nuovi, italiani nuovi, perché se mai ci salveremo sarà per la voglia di chi vede nel nostro paese una nuova opportunità di vita e non una nave che cola ogni giorno di più a picco.
Sperare in persone di altri colori e terre, con alle spalle, spesso, storie drammatiche di fughe e povertà, che si riconoscono nell’uguaglianza e nella giustizia sociale perché hanno provato sulla loro pelle il terribile contrario.
Cosa c’è di sbagliato in tutto questo?
Preferirò sempre, sempre, credere a un uomo animato da sentimenti universali, magari traditi da una condotta alla resa dei conti indegna, che affidami a chi di universale, umanamente universale, non ha niente da proporre ed è fiero di non averlo.
Tra chi spera in un mondo possibile senza riuscire a realizzarlo, e chi realizza un mondo che non è e non sarà mai il mio.
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