Jingle, sigle e tappeti: da anni l’Associazione fonografici italiani e la Rai sono in disputa sulla proprietà dei brani che sentiamo ripetuti migliaia di volte. Ora Afi, che l’anno scorso è stata anche ricevuta al Quirinale per il 75esimo anniversario dalla fondazione, non può corrispondere compensi agli autori che rappresenta, né chiudere le scritture contabili
Quanto vale una sigla? La risposta può variare, e dipende a chi la si chiede. Si può riassumere così una lunga storia che riguarda l’Associazione fonografici italiani e la Rai. L’Afi rappresenta i produttori discografici indipendenti e raccoglie oltre settecento associati che, dal punto di vista dell’associazione in attività dal 1948 – e ricevuta l’anno scorso per il 75esimo anniversario della fondazione dal presidente della Repubblica – non stanno ricevendo dal servizio pubblico quanto spetterebbe loro.
La ragione sta in un’interpretazione diversa della norma che regola la proprietà dei prodotti generati dai dipendenti di un’azienda e dei diritti che dipendono dalla loro riproduzione. In linea di massima, la paternità rimane in capo all’autore, lo sfruttamento è appannaggio dell’azienda, mentre i diritti generati dalla riproduzione di una sigla o un jingle dovrebbero continuare a fluire nelle tasche degli autori.
Secondo la Rai, però, chi compone un brano (a volte su commissione di RaiCom, che è l’azienda che si occupa di questo tipo di questioni) non diventa automaticamente “produttore fonografico” e, quindi, non gli sono dovuti diritti per i pezzi riprodotti. «La mera incisione non fa sorgere automaticamente la qualifica ai sensi della normativa, anche perché peraltro si tratta di brani non destinati alla messa in commercio».
La disputa va avanti da anni, tanto che il past president Sergio Cerruti ha portato avanti la sua battaglia contro viale Mazzini anche in altri contesti: è suo il ricorso al Tar della Liguria sulla messa a gara del marchio del Festival di Sanremo che ha agitato gli animi nei giorni scorsi.
Il musicista più noto coinvolto in una vicenda di quel tipo è nientemeno che il direttore Beppe Vessicchio. Il baffo più famoso dell’Ariston ha visto riconosciute le sue ragioni dal giudice di primo grado, ma la Rai ha impugnato la sentenza. Al momento è pendente il giudizio d’appello. Peraltro, se alla fine la Rai dovesse liquidare i proventi generati dall’utilizzo di registrazioni di proprietà del maestro, c’è il rischio che debba farlo sulle tariffe stabilite nel dpcm del 1975 sulla determinazione compensi diritti connessi, meno vantaggiose di quelle agevolate concordate tra le parti. Da pagare, eventualmente, anche con i soldi dei cittadini.
La vicenda
Ma Afi rivendica le sue ragioni: quasi per caso Cerruti aveva confrontato il registro Afi delle riproduzioni del repertorio (e quindi dei consensi dovuti) con quanto effettivamente corrisposto per scoprire una differenza non indifferente. Di fronte alla prima rivendicazione, viale Mazzini ha proceduto a liquidare 1,5 milioni di euro. Ma a quel punto Afi si è impuntata e grazie a un gruppo di ascolto ha ripercorso anni di trasmissioni fino al 2012, individuando una lunghissima serie di registrazioni usate dalla tv pubblica che – dal punto di vista dei fonografici – non sarebbero state ricompensate a dovere.
La stima dei soldi mancanti per l’associazione si aggira intorno ai 10-12 milioni di euro, un dettaglio che l’azienda contesta: «La cifra che alla Rai risulterebbe dovuta ad Afi è comunque molto inferiore a 12 milioni di euro». Inoltre, secondo Afi ci sarebbe anche un ampio numero di soggetti terzi nelle stesse condizioni degli associati i cui diritti ancora da riscuotere dal 2012 a oggi varrebbero anche 50 milioni di euro.
Oggi, l’associazione e l’azienda si rimbalzano la responsabilità dell’impasse: l’ufficio legale della Rai sostiene di non aver ricevuto riscontro alla propria proposta di accordo per l’utilizzazione del repertorio conteso, Afi dice di trovarsi in attesa di capire chi sarà il procuratore interno all’azienda che avrà la delega di firmare l’accordo per gli anni ‘22-’23-’24, che però esclude i brani oggetto di contenzioso.
L’effetto sul bilancio di Afi
Il contenzioso con la Rai si è ripercosso sui conti di Afi, che ha iniziato ad avere problemi di bilancio, tanto da arrivare nel 2022 a presentare un decreto ingiuntivo nei confronti di viale Mazzini per quattro milioni di euro più gli interessi dovuti per i diritti non pagati.
Nella primavera del 2023, Cerruti ha anche proceduto a denunciare la Rai per truffa aggravata. A dargli manforte è arrivata una multa di Agcom – la seconda, su questo tema – da 60mila euro, il massimo che può comminare l’authority per quel tipo di procedimento. «Il comportamento posto in essere dalla società deve ritenersi di gravità elevata in quanto lo stesso ha pregiudicato una corretta ed efficiente intermediazione dei diritti connessi al diritto d’autore», si legge nel dispositivo.
Eppure, nonostante i rapporti saranno ufficialmente interrotti dal primo gennaio 2025, tanto che a ottobre l’associazione ha espulso Raicom a causa di «reiterate condotte in contrasto con i principi fondamentali dello Statuto e con le norme che regolano la gestione dei diritti connessi», Afi rivendica che la Rai non ha smesso di utilizzare i brani contesi, come dimostrano «gli ulteriori 9.000 minuti mancanti nel solo anno 2023».
Insomma, la soluzione bonaria non sembra essere nell’ordine delle cose di qui a breve. Anche perché, raccontano da Afi, già nel 2021 si erano rivolti all’allora futuro ad Giampaolo Rossi per chiedergli aiuto e risolvere la vicenda. Non è stato l’unico coinvolto, ma prima dell’estate di quest’anno Cerruti è tornato a cercarlo: niente da fare, raccontano, Rossi è «troppo occupato con i palinsesti».
L’amministratore delegato, dal canto suo, fa sapere che l’estate scorsa non riteneva opportuno interferire su una trattativa in corso. Nel frattempo, Afi il bilancio 2023 non può chiuderlo: mancano i soldi della Rai.
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