Contrordine compagni. Anzi, patrioti. Al ministero è cambiato il volto del ministro, dopo le dimissioni di Gennaro Sangiuliano, ma il suo erede, Alessandro Giuli, ha scelto lo stesso modello: approccio sprezzante e aggressivo. A parlare, ieri alla Camera, era Giuli ma sembrava di ascoltare Sangiuliano.

Non è mancato l’inchino dell’ex direttore del Maxxi alle sorelle Meloni con la pubblica benedizione della nomina di Fabio Tagliaferri al vertice della Ales, società in house del ministero della Cultura. L’illusione di un cambio, quantomeno di stile, è durato giusto qualche giorno.

Giuli ha sposato le tesi di Fratelli d’Italia che definito «cecchinaggio politico e mediatico» le critiche all’assegnazione dell’incarico a un fedelissimo della presidente del Consiglio, Tagliaferri appunto, considerato vicino e stimato da Arianna Meloni, a dispetto di un curriculum sguarnito nel settore cultura e affini.

Per abbracciare ulteriormente la causa del dirigente ciociaro di FdI divenuto manager, il ministro ha promesso il massimo sforzo per fare chiarezza sulla precedente gestione di Ales, finita sotto attacco di Fratelli d’Italia in merito al rapporto intrattenuto con il Monte dei Paschi di Siena sulla gestione dei conti correnti.

La linea scelta è la seguente: difesa a spada tratta della precedente gestione del Collegio romano (sede del Mic). Sarà stata l’adrenalina per l’imminente ultimo esame all’università del ministro, che lunedì dovrebbe tenere e superare per avviare il percorso verso la tesi di laurea, ma lo stile di Giuli è stato di fastidio verso chi ha messo sul tavolo le richieste di modifiche al decreto sul tax credit (e non solo) approvato in estate da Sangiuliano, dietro la regia della sottosegretaria leghista, Lucia Borgonzoni. Insomma, a Montecitorio il ministro della Cultura ha escluso qualsiasi ritocco, anche minimo, alla riforma che ha riscritto il meccanismo di assegnazione degli sgravi alle imprese cinematografiche.

Muro contro muro

Le richieste di produttori, distributori e artisti sono dunque state cestinate, all’insegna del muro contro muro di sangiulianesca memoria. Anzi è stata annunciata un’accelerazione: «È prossima l’apertura della piattaforma per la raccolta delle richieste di tax credit, sulla base del decreto approvato», ha detto Giuli rispondendo all’interrogazione della deputata del Pd, Irene Manzi, che sollecitava chiarimenti nell’auspicio di una maggiore propensione al dialogo. Il processo è invece irreversibile.

Il neo-ministro è andato giù duro: ha tracciato il parallelo tra il vecchio tax credit e «il Superbonus» e ha alzato il tiro dicendo che «non deve diventare il Reddito di cittadinanza della cultura». Come se finora non avesse aiutato le aziende cinematografiche, favorendo la crescita del comparto, ma le avesse soltanto sussidiate.

«Denigrare una politica industriale fondamentale come il tax credit vuol dire non comprendere l'importanza della filiera audiovisiva italiana», commenta sconsolata Manzi, firmataria del question time di ieri, sottolineando: «Giuli segue le orme del suo predecessore Sangiuliano».

L’unica novità è nei nomi. Il ministro ha provveduto alla modifica della commissione che gestirà oltre 80 milioni di euro per la realizzazione di film. Sembrava un cambio di passo, ma è stato un lifting, niente rivoluzioni. Qualche esempio rende l’idea: al posto di Francesco Specchia, giornalista di Libero, è entrato Giorgio Gandola, penna di punta della Verità. Poi c’è stato il riequilibrio di genere. Tra i nomi spicca quello di Benedetta Fiorini, ex parlamentare della Lega, inserita in quota Borgonzoni.

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