Nel giorno in cui le opposizioni, partiti sindacati e associazioni, si presentano uniti ai nastri di partenza della raccolta delle firme per cancellare l’autonomia differenziata, a destra volano stracci. Da questa parte la coda del mancato voto della premier a Ursula von der Leyen da parte di due forze di governo su tre è velenosissima. E a poco servono le parole della premier per far finta di nulla.

Il vicepremier Antonio Tajani è irritatissimo per il fallimento del suo tentativo di avvicinare Giorgia Meloni alle posizioni europeiste, e durante un evento a Tolfa (Roma) picchia dritto su Matteo Salvini, ma perché anche la presidente intenda: «I patrioti italiani rischiano di essere ininfluenti all’interno dei patrioti europei». Poi un secondo gancio: «Noi saremo nella cabina di comando, l’estrema destra di Le Pen è fuori dai giochi: non li eleggono, non li vogliono, non è che manca la democrazia».

A stretto giro dalla Lega filtra una rispostaccia: «Votare con Schlein per una poltrona è imbarazzante. Meglio senza vicepresidenti che con verdi e sinistre». Ma per Tajani il tempo della pazienza è finito, e controreplica: «Potrei dire che chi ha votato no ha votato come Salis e Fratoianni e come Conte, ma sarebbe una risposta puerile, come è puerile dire che abbiamo votato con la sinistra».

Banchetti uniti

Botte da orbi. Proprio nel giorno in cui un embrione di centrosinistra potenziale si coordina e colpisce sul ddl Calderoli. Il segretario Cgil Maurizio Landini si presenta a firmare a Roma, ai banchetti che i sindacalisti avevano allestito davanti all’Ospedale San Filippo Neri, «per dire no ad uno dei nodi più critici dell’autonomia differenziata, l’attacco al servizio sanitario nazionale». Elly Schlein firma a Perugia con la neosindaca Vittoria Ferdinandi, che è stata sostenuta da un campo larghissimo. Non è un caso la scelta dell’Umbria: ad horas Stefania Proietti, sindaca di Assisi, scioglierà la riserva, il centrosinistra le ha chiesto di correre da presidente alle regionali. Proprio ieri è arrivato anche il sì di Italia viva, il partito di Matteo Renzi è ormai conquistato da una vertigine unitaria.

Giuseppe Conte fa il volontario: si siede al banchetto di piazza a Civitavecchia e si mette ad armeggiare con moduli e documenti. Altra città-simbolo, quella del porto del Lazio: il sindaco Marco Piendibene ha appena sfrattato la Lega dalla guida del comune. I rossoverdi Bonelli e Fratoianni improvvisano un comizio a Roma al mercato di Testaccio; la stessa cosa fa al mercato di largo Pugliese l’ex ministra Maria Elena Boschi, di Iv; il segretario Uil Pier Paolo Bombardieri va con i suoi a raccogliere firme a piazza Gimma.

Parte così, in maniera «coordinata», la raccolta delle firme. A fine giornata alla sede della Cgil, che è la capofila e la capoclasse della campagna, arrivavano notizie confortanti, nonostante le temperature africane. Oggi a Genzano, cuore rosso dei Castelli romani, tocca all’Anpi e al Prc.

Partiti, associazioni e sindacati, tutti insieme: tranne Azione, e la Cisl dal lato sindacale. Certo, la raccolta di 500mila firme entro fine settembre è una sfida contro il tempo. Ma se tutto va bene (cioè se la Consulta poi accetterà il quesito) il vero cimento sarà il quorum: cioè portare ai seggi letteralmente mezzo paese. A dare una mano però saranno gli altri quattro referendum della Cgil: il sindacato ha appena consegnato alla Cassazione quattro milioni di firme, un successo trascinato dal quesito che cancella il Jobs Act. A cui Iv voterà no, ma senza drammatizzare.

Ma il fatto nuovo è il no unitario all’autonomia differenziata, che chiamano all’unisono «SpaccaItalia», «il frutto di un cinico baratto», secondo Schlein: Meloni ha detto sì al ddl Calderoli «per far passare una pericolosa riforma costituzionale come il premierato», «se fermiamo una di queste due riusciamo a fermarle tutte e due». Sarebbe un avviso di sfratto per le destre di governo.

Le firme da raccogliere sono una valanga. Ma presto si potrà utilizzare un format online pubblico. La legge in realtà c’è dal 2021 ma, manco a dirlo, il governo rallenta i tempi, spiega Riccardo Magi (Più Europa): «Tra poche ore, mi dicono da Palazzo Chigi, andrà in Gazzetta il Dpcm che ufficialmente dà avvio alla piattaforma gratuita». Però ancora nessuno ha visto l’interfaccia digitale né sa come funziona. E i tecnici di palazzo hanno confidato che i test sono stati effettuati, ma come ogni partenza digitale, c’è da incrociare le dita. I referendari sono pronti: c’è già un «Qr Code» (un Quick Response Code, in pratica un codice a barre) per le firme online.

Regioni, si aspetta la Puglia

L’altra strada, quella della richiesta delle regioni, è quasi compiuta: quattro regioni governate dal centrosinistra su cinque hanno già approvato la richiesta. Manca la Puglia, il cui consiglio si riunirà il 23 luglio. Su decisione del Pd, le regioni tentano la strada di due quesiti: uno totalmente abrogativo, uno solo parzialmente. Un piano B consigliato dai giuristi, in caso il primo quesito non passasse il vaglio della Consulta.

Una parte dei referendari è insofferente, perché l’iniziativa indebolirebbe lo scontro frontale. Ma il Pd giura che ritirerà il quesito parziale, in caso di approvazione di quello totale. E la Cgil invita caldamente i suoi a evitare polemiche, che non fanno bene allo sforzo titanico della raccolta delle firme.

Per tacitare altre polemiche, ieri si sono fatti sentire i dem del nord, accusati di essere freddi sulla campagna: «In questo weekend abbiamo organizzato più di venti banchetti in Piemonte», sottolinea il segretario regionale Domenico Rossi, «ma non siamo soli, tante realtà si stanno impegnando, un bel laboratorio del centrosinistra che deve mostrarsi unito contro la peggiore destra repubblicana». È già un miracolo: alle ultime regionali piemontesi, poco più di un mese fa, questo «laboratorio» non era neanche all’orizzonte.

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