La scommessa della normalizzazione è stata persa, naufragata contro l’impuntatura sul voto contrario a Ursula von der Leyen. Un copione prevedibile. Eppure Giorgia Meloni ha deluso i “moderati”.

Tutti quelli che avevano creduto nella sua ricollocazione pragmatica in Europa, facendo prevalere l’interesse nazionale al netto delle valutazioni pregresse.

Si tratta di tutti quei consiglieri esterni che, in pubblico o in privato, hanno puntato sulla capacità di leadership meloniana, cercando di portarla a più miti consigli. Su tutti spicca il giurista Sabino Cassese, capace di conquistarsi la fiducia e la stima dell’inner circle meloniano. E della stessa leader di Fratelli d’Italia.

C’erano motivi concreti per aprire alla presidente della Commissione europea. Prima di tutto si poteva partire da una posizione privilegiata per chiedere deleghe di peso per il prossimo commissario italiano.

Von der Leyen avrebbe molto apprezzato il gesto di un sostegno, magari sofferto. E per questo ancora più rilevante. Allo stesso tempo, un rapporto più disteso avrebbe consentito di strappare una maggiore flessibilità quando si parlerà della prossima manovra economica.

Interesse di parte

Il “no” a von der Leyen ha lasciato il segno, quindi. Cassese, nella posizione di suggeritore, lo ha sottolineato nel suo editoriale di ieri sul Corriere della Sera: «Nell’intreccio tra coerenza di parte e interesse nazionale è prevalsa la prima». I consigli forniti sono caduti nel vuoto.

Il giurista aveva perorato la causa di un passo in avanti nella direzione di Bruxelles. Tradotto: gradiva un voto favorevole alla presidente della Commissione europea, quella leader con cui Meloni ha pure costruito un rapporto umano. Il divorzio tra Vox, l’estrema destra spagnola di Santiago Abascal, e il gruppo dei Conservatori era stato visto come un assist involontario. Che si doveva capitalizzare.

La presidente del Consiglio italiana avrebbe potuto smarcarsi con più facilità, avendo perso per strada un alleato scomodo, ma che pure era considerato prezioso.

Nemmeno questa opportunità ha cambiato l’orientamento di FdI, che ha invece seguito la rotta dell’orbanizzazione e della salvinizzazione: così è stato fallito un gol a porta vuota. La pacca sulla spalla, con dichiarazioni di apprezzamenti, di Roberto Vannacci suona come una beffa.

Cassese ha perciò preso atto della strategia della premier ed è stato perentorio nel giudizio: è stata negata «la componente nazionalistica di Fratelli d’Italia» perché «l’incoerenza politica sarebbe stata coerente con l’interesse nazionale».

Un ragionamento logico che però marca un primo distanziamento tra un mondo culturale che aveva creduto in un partito veramente conservatore e meno legato alla vecchia fiamma, al simbolo post missino, e capace di compiere la mossa per accreditarsi definitivamente con i vertici europei.

Forza Italia all’incasso

Anche sul piano politico resta qualche strascico sul terreno. Forza Italia non ha apprezzato la rottura di FdI. Il partito di Meloni ha nei fatti preferito mettersi in scia alla Lega di Matteo Salvini, e i suoi Patrioti, rinunciando al confronto sul merito con i Popolari europei.

Il vicepremier Tajani aveva sperato in un ripensamento, benché dal punto di vista partitico sia stato più conveniente il no dei meloniani: in questo modo gli azzurri si sono posti come l’unica forza ragionevole della maggioranza. Tuttavia, c’è la consapevolezza dell’anomalia: per la prima volta un partito italiano, espressione di un premier, boccia una presidente della Commissione in Ue.

Tajani ha quindi cercato di ricavarne qualcosa di buono, almeno per sé. Subito dopo il voto in Europa, ha parlato di «irrilevanza» di chi aveva votato contro. Un messaggio lanciato ai leghisti, ma che inevitabilmente si è esteso ai meloniani.

Minimizzazione in corso

Fratelli d’Italia sta cercando di minimizzare i possibili effetti dell’ostilità a von der Leyen. La star del momento, il ministro del Pnrr e candidato al ruolo di commissario italiano, Raffaele Fitto, è intervenuto all’assemblea nazionale di Coldiretti. «Non ho mai visto il rischio di determinare un approccio diverso sul ruolo dell’Italia in Commissione rispetto al voto politico del parlamento», ha detto.

Un intervento in versione pompiere, come ben riesce al fedelissimo della premier: «L’Italia è l’Italia, un paese fondatore che ha un ruolo importante inevitabilmente e inevitabilmente lo continuerà ad avere all’interno della Commissione europea rispetto a quelle che poi saranno le scelte messe in campo». Allo stesso evento il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, ha sostenuto che non c’è stato «alcuno strappo».

D’altra parte c’è chi, come Carlo Fidanza, l’uomo forte di FdI nell’Europarlamento, non ha abbassato i toni. «La maggioranza Ursula avrà vita breve», ha profetizzato in un’intervista ad Affaritaliani.

Nessuno intento conciliatorio. Anzi, la volontà di tenere alto il livello dello scontro, prestando il fianco ai facili attacchi delle opposizioni. Il voto su von der Leyen, secondo il senatore del Pd Antonio Misiani, è «l’epilogo inglorioso della campagna d’Europa di Meloni».

Di sicuro dopo i roboanti proclami sulla rivoluzione da portare a Bruxelles, la destra italiana si ritrova alla guida di un’Italia sempre più ai margini.

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