La crisi della medicina generale è sotto gli occhi di tutti. Centinaia di migliaia di italiani sono rimasti senza un medico di famiglia a causa dei tanti pensionamenti e delle poche nuove vocazioni.

I medici di medicina generale (Mmg) visitano quasi solo per appuntamento, non usano, salvo rari casi meritori, neppure una minima strumentazione diagnostica e rinviano al Pronto soccorso e agli specialisti migliaia di pazienti che, in altri paesi, sono gestiti abitualmente dai loro colleghi.

A tutto questo si aggiunge che gran parte dei finanziamenti per la Sanità previsti dal Pnrr sono destinati alla costruzione e all’attivazione delle Case di comunità che dovrebbero essere il fulcro della futura medicina territoriale. E il fulcro di questo fulcro dovrebbero essere i Mmg che però sembrano molto poco interessati a uscire dal guscio dei loro ambulatori convenzionati.

Il progetto del governo

Per dare una risposta a tutto ciò, il governo sta lavorando a un progetto di riforma della medicina generale che, fino a pochi giorni fa, sembrava basarsi soprattutto su di un progressivo passaggio alla dipendenza pubblica dei Mmg.

Si sapeva che il ministro Orazio Schillaci non era contrario all’idea e che almeno quattro regioni importanti come Lombardia, Veneto, Lazio e Friuli-Venezia Giulia stavano lavorando ai dettagli di una proposta da presentare in ambito nazionale.

L’ultimo vertice di maggioranza ha però messo uno stop, probabilmente definitivo, a questa ipotesi. Alla base della decisione si possono intuire i dissidi interni alla maggioranza (la Lega era per il sì, Forza Italia per il no), il fronte compatto dei sindacati di categoria (nonostante quasi la metà dei medici, presi singolarmente, veda con favore il provvedimento), e la percezione che il provvedimento avrebbe potuto rivelarsi impopolare tra i propri elettori.

La controproposta, molto meno ambiziosa, è che i Mmg mantengano il loro rapporto di convenzione, ma che siano tenuti a lavorare un certo numero di ore nelle Case di comunità per delle piuttosto nebulose «attività promosse dai distretti». Una volta di più, le ragioni politiche hanno avuto il sopravvento sulla valutazione tecnica e organizzativa nell’affrontare un problema che interessa tutti i cittadini, senza distinzione di colore politico.

I pro e i contro di una scelta

Il problema è senz’altro complesso ed esistono buone ragioni a favore di ambedue le posizioni.

A favore del rapporto di dipendenza, c’è la necessità di meglio controllare orari e obiettivi di lavoro dei medici che oggi, pur all’interno di alcune norme generali, sono di fatto autonomi nel definire la propria modalità di lavoro.

Mentre la medicina di gruppo, che prevede aperture allargate degli ambulatori e presenza di personale ausiliario, sta lentamente prendendo piede in alcune regioni, la maggior parte dei medici italiani lavorano ancora da soli nei propri ambulatori, spesso in assenza di un supporto infermieristico o amministrativo e di un reale confronto con colleghi e specialisti.

Contro il rapporto di dipendenza, sta innanzitutto l’estrema complessità organizzativa. Le regioni dovrebbero farsi carico di fornire ambulatori pubblici, spazi e supporto infermieristico per tutti, oltre che di sostituire tutte le assenze per ferie o malattia (cosa che per ora i medici gestiscono in autonomia).

Soprattutto però, si rischierebbe di perdere l’attuale rapporto di fiducia tra il medico e i suoi pazienti. Non sono irrilevanti a questo proposito la facile raggiungibilità dell’ambulatorio e le modalità di lavoro che i medici più bravi hanno costruito nel loro studio, con il quale hanno un rapporto simile a quello che un artigiano ha con il proprio laboratorio. Se lo sono costruito, organizzato, arredato, e ci passano, anche al di là dell’orario di apertura, il loro tempo di studio, di riflessione, di elaborazione dei dati. Dove faranno tutta questo domani? E quale autonomia avranno nella gestione di orari e visite, se anche loro cominceranno a timbrare il cartellino?

La mancanza di una visione

Ora che l’idea di un rapporto di dipendenza sembra in ogni caso tramontata, resta da capire quali siano le prestazioni “a ore” che i medici dovrebbero fornire alla Case di comunità.

La cosa più certa è che ogni medico dovrebbe partecipare a una sorta di continuità assistenziale sulle 24 ore per i pazienti con urgenze minori, scaricando così i pronto soccorso sovraffollati. Per poterlo fare però, dovrebbe avere un accesso diretto a ecografia, radiologia di base, Ecg, e a un minimo di esami di laboratorio. Ma se i Mmg non svilupperanno queste competenze, sarà necessaria la presenza sulle 24 ore anche degli specialisti che ne sono in possesso. Tanti medici in più, che già non si trovano, tanti soldi da spendere che non ci sono.

Un’alternativa ci sarebbe: rendere obbligatoria la medicina di gruppo (almeno 3-5 medici che lavorano insieme), aprire gli ambulatori 12 ore al giorno lasciando uno spazio per le visite urgenti, favorire attraverso una nuova formazione universitaria le capacità di diagnostica strumentale dei Mmg e incentivare la presenza di personale di supporto.

Le Case di comunità potrebbero allora diventare centri di aggregazione e di formazione permanente per i Mmg, punti di incontro con gli specialisti, occasioni di collaborazione con i servizi socio-assistenziali, riferimento per attività epidemiologiche e di ricerca.

Una rivoluzione culturale, cui al momento non sembrano interessati né il governo, né i corporativi sindacati della medicina generale.

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