Ha ragione Gianfranco Viesti, l’autonomia differenziata che approda al suo traguardo finale è una secessione dei ricchi. Lo confermano le decine di audizioni svolte tra Camera e Senato e che hanno letteralmente demolito l’impianto della legge. Costituzionalisti, storici, economisti, la Fondazione Gimbe, rappresentanti di associazioni e categorie produttive, forze sociali e sindacali lo hanno fatto con argomenti tecnici e di merito inattaccabili, senza che dal governo sia giunto il minimo segnale di attenzione e rispetto verso obiezioni tanto incalzanti.

Anzi. Quando nei giorni scorsi in commissione Affari costituzionali un emendamento delle opposizioni è stato approvato (10 voti contro 7) a causa dell’assenza di alcuni deputati leghisti si è deciso di invalidarne l’esito e ripetere la votazione. Prepotenza inutile e sbrego alle regole, dal momento che trattandosi di un disegno di legge della maggioranza sarebbe bastato bocciare l’emendamento nel successivo passaggio in aula. Ma non era questo ciò che si voleva ottenere.

L’obiettivo neppure dissimulato era la blindatura di un testo carico di incoerenze, offerto al partito della Meloni come merce di scambio con quel rito che sul palco di Pescara («Scrivete solo Giorgia perché io sarò sempre una di voi») ha sperimentato l’effetto del possibile premierato.

In tutto questo, è bene ripeterlo, non c’entra l’autonomismo. Non c’entra la sussidiarietà. Qui siamo di fronte a un’operazione diversa, l’approdo della sfida quarantennale che il leghismo, inteso come ideologia, ha lanciato ai principi fondanti dell’Italia una e indivisibile. Basterebbe a spiegare perché bloccare questa riforma diviene un dovere politico caricato di un significato storico e culturale.

A Bruxelles la destra radicale si batte per il primato del diritto interno su quello comunitario. Tradotto, vuol dire l’Europa delle nazioni contrapposta allo spirito di Ventotene. Qui, quella stessa destra punta a creare micro stati slegati da una concezione unitaria del bene comune. Ma con una differenza – anzi, più di una – dentro le file della maggioranza.

Perché tra l’elezione diretta del capo del governo e questa autonomia ci sono evidenti conflitti. La prima riforma richiede una legge costituzionale, l’altra una legge ordinaria rinforzata come previsto dal terzo comma dell’articolo 116 della Carta. Ancora, in termini culturali la proposta muove da ciò che va trasferito alle regioni, quando logica imporrebbe di definire preventivamente il confine di quello che deve rimanere allo Stato. Il tutto con una conseguenza, che se l’autonomia venisse approvata prima della nuova forma di governo ci troveremmo di fronte a contraddizioni patenti dei due modelli.

La domanda, allora, è se un pezzo della maggioranza punta soltanto a frammentare l’Italia in tanti piccoli Stati semi indipendenti. Come del tutto evidente, quella non sarebbe un’Italia più competitiva. Il che, però, fa pensare che l’obiettivo vero potrebbe essere quello di una macro regione costruita sull’articolo 117, comma 8 della Costituzione, per cui «la legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni».

Cioè l’evocazione di un direttorio dei governatori del Nord: potrebbe succedere, oggi più di ieri. Ma cosa sarebbe a quel punto del parlamento nazionale e del Primo Ministro assoluto? E soprattutto cosa sarebbe dell’unità d’Italia?

In conclusione, la destra ha scelto la strada di una accelerazione da giudicare irricevibile per ragioni di metodo e merito. Non fermeremo questo treno solamente da dentro le aule parlamentari. Se vogliamo sconfiggere il disegno dobbiamo fare due cose. Allargare il più possibile il perimetro dell’opposizione a quella strategia. E questo, come rimarcato da Viesti, significa saldare la giusta reazione del Sud – sindaci, imprese, sindacati, scuole e università, operatori della sanità pubblica, forze della cultura – al resto del paese.

La seconda necessità è il bisogno di non ridurre la battaglia a una palestra di specialisti. Adesso è il momento di scuotere la pianta oltre la sola dimensione delle istituzioni. La verità è che a destra vogliono l’uomo forte ma gli italiani deboli. Tutto sommato continuo a credere che solo un popolo forte delle sue libertà e dei suoi diritti possiede la capacità di una politica all’altezza del tempo. Direi che provarci è un dovere morale. Per una ragione ultima, ma forse la più importante tra tutte poiché riguarda la nostra reputazione. Ed è che non possiamo venire sconfitti da una riforma – l’autonomia differenziata – che porta il nome di una discarica!

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