Con il nuovo patto di stabilità e gli automatismi richiesti dalla riforma in discussione, la sola via per rispettare i vincoli consisterà nell’aumento delle tasse, sicché l’autonomia differenziata porterà ad aumentare notevolmente la pressione fiscale. Soprattutto nelle regioni del Nord
L’autonomia differenziata spaccherà il paese, danneggerà le regioni più deboli, ma soprattutto porterà a un forte aumento delle tasse che finiranno per colpire le regioni del nord: ecco perché va rifiutata da tutto il paese. Bastano poche considerazioni per rendersene conto.
Tutti sappiamo che prossimamente l’Italia sarà messa sotto procedura europea per superamento della regola del disavanzo pubblico: i dati del 2023 sono eloquenti. Non sarà il solo paese sotto procedura d’infrazione, ma sicuramente sarà il paese più problematico, anche con riferimento al nuovo Patto di stabilità che prenderà il via il prossimo anno con la nuova Commissione europea che sostituirà l’attuale.
Le prospettive di crescita dell’economia italiana e di evoluzione spontanea della finanza pubblica, esplicitate dal Def presentato dal ministro Giancarlo Giorgetti, non lasciano dubbi: da qui al 2026 la riduzione del rapporto tra debito pubblico e Pil sarà impercettibile, il disavanzo pubblico stenterà a rientrare sotto il 3 per cento, e questo malgrado il mancato rinnovo di molti provvedimenti di spesa attualmente in vigore che, se riproposti, aggiungerebbero nuovo disavanzo, come il finanziamento della riduzione del cuneo previdenziale, per non parlare delle molte promesse di riduzione della pressione fiscale. Né c’è da sperare che la nuova Commissione europea sarà più tollerante dell’attuale.
Al contrario, in un’Europa dove stanno emergendo governi sempre più sovranisti e spostati a destra, ci sarà sempre più una tendenza a evitare che i guai di alcuni paesi si trasferiscano agli altri.
In omaggio al motto “Prima il mio paese”, non si vorranno fare debiti comuni e non si accetterà che le deviazioni fiscali di un paese si riverberino sui conti degli altri paesi. Prevarrà l’impostazione dei paesi frugali che porterà a un’applicazione ragionieristica del Patto di stabilità, con misure di risanamento per i paesi in squilibrio. Certo, la vera applicazione del Patto è rinviata di fatto al 2027, ciò che dà qualche spazio di respiro, ma come ci arriverà il nostro paese a quella data?
Supponiamo (e spero veramente di sbagliarmi) che a quella data il nostro paese debba applicare l’autonomia differenziata regionale come la sta discutendo il parlamento proprio in questi giorni. Questo significa che una larga parte della spesa pubblica discrezionale del nostro paese sarà appannaggio delle regioni, mentre quella di natura obbligatoria, ossia sulla quale è praticamente impossibile intervenire, resterà a carico dello Stato. Le spese di natura obbligatoria sono essenzialmente gli interessi sul debito pubblico e l’onere delle pensioni, a cui forse nel futuro toccherà aggiungere la spesa per la difesa, visto che le circostanze internazionali ci spingono a rispettare gli impegni presi come membri della Nato.
Il fatto che gran parte della restante spesa pubblica sarà appannaggio delle regioni in virtù dell’autonomia differenziata renderà anche questa spesa rigida e obbligatoria. Infatti, secondo i principi dell’autonomia differenziata, le regioni avranno diritto a risorse finanziarie sufficienti ad assolvere ai Lep (Livelli essenziali di prestazione), che dovranno essere trasferite alle regioni ogni anno.
L’unica strada
Questo trasforma il bilancio dello stato da un bilancio di spesa discrezionale a un bilancio di trasferimenti obbligati, su cui lo stato non avrà più alcuna possibilità di discrezione, se non quella di aumentare questi trasferimenti più di quanto imposto dalla legge.
E poiché si tratta di livelli essenziali di prestazione è implicito che questi trasferimenti si intendono indicizzati all’inflazione per poter mantenere inalterato il loro livello reale. Poiché le materie che le regioni possono (e vogliono, a stare alle loro dichiarazioni) assumersi autonomamente rappresentano una parte maggioritaria delle spese pubbliche discrezionali, ne deriva che lo Stato italiano (e il suo governo) non avrà più elementi di flessibilità per governare la spesa pubblica, destinata a crescere automaticamente per fattori esterni (i tassi di interesse), per fattori interni (la domanda di pensionamenti in un paese che invecchia) e per fattori automatici (l’indicizzazione delle spese regionali).
In queste condizioni, la sola via per rispettare quelli che saranno i vincoli europei consisterà nell’aumento delle tasse, sicché l’autonomia differenziata porterà ad aumentare notevolmente la pressione fiscale in un paese che già oggi ha un’elevata pressione sui pochi che pagano le tasse, visto che evasori e lavoratori autonomi ne sono stati in parte o totalmente esentati. La Banca d’Italia aveva avvertito il parlamento di questo rischio quando è stata invitata a dire la sua sull’autonomia differenziata, e anche la Commissione europea ha denunciato il rischio di irrigidimento della spesa pubblica.
Eppure, nessuno ha preso in considerazione questo rischio. Un rischio che è una certezza e che dovrebbe interessare soprattutto le regioni del Nord, quelle che una falsa narrazione indicherebbe come le favorite dall’autonomia differenziata. Queste regioni saranno quelle che pagheranno di più, sia per gli squilibri che deriveranno al nostro paese e che porteranno i tassi di interesse a livelli elevati, sia perché l’aumento obbligato delle tasse riguarderà le aree più ricche del paese, che finiranno per restituire con gli interessi i presunti ed effimeri vantaggi che possono derivare dall’autonomia differenziata.
È ora che il Nord d’Italia capisca che, con l’autonomia differenziata, sta mettendo le premesse per una stagione di aumento della pressione fiscale a livelli ben superiori a quelli attuali e si ribelli, come ha anche chiesto Gianfranco Viesti su questo giornale, perché, francamente, non ne vale proprio la pena.
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