Le riforme su cui il governo è più impegnato negli ultimi mesi – autonomia differenziata, varata in via definitiva, e premierato, approvata in prima lettura dal Senato – mostrano un denominatore comune. È il depotenziamento del ruolo del parlamento con contemporaneo potenziamento dei poteri del governo, in particolare del presidente del Consiglio. È necessario unire i puntini, cioè leggere congiuntamente alcune norme di tali riforme, per individuare il fine ultimo perseguito dall’esecutivo di Giorgia Meloni.
Autonomia differenziata
La legge sull’autonomia differenziata disciplina il procedimento di approvazione delle “intese” necessarie per l'attribuzione alle regioni interessate dell’autonomia in una o più materie (articolo 116, comma 3, della Costituzione).
Alla richiesta da parte della regione di «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» segue un negoziato tra la regione stessa e il governo, nel rispetto di un preciso iter. Il parlamento è il grande assente, mentre il presidente del Consiglio è tra gli attori principali, come emerge da una serie di disposizioni.
Prima dell’avvio del negoziato, egli si limita a darne informazione alle camere. Poi, una volta definito lo schema di intesa, entro 90 giorni gli organi parlamentari competenti devono pronunciarsi su di esso con atti di indirizzo, che però non sono vincolanti.
Infatti, il presidente del Consiglio può non conformarvisi in tutto o in parte, purché motivi la sua scelta. Inoltre, è sempre e solo il vertice dell’esecutivo a decidere su quali materie la potestà legislativa non sia trasferibile alle regioni «al fine di tutelare l’unità giuridica o economica del paese», mentre sarebbe più logico che la decisione fosse assunta da chi detiene il potere legislativo, cioè il parlamento.
Pure nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) – il nucleo di diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale – il parlamento ha un ruolo marginale. Gli schemi dei decreti legislativi che fissano i Lep sono adottati su proposta del presidente del Consiglio e sottoposti ai pareri delle commissioni parlamentari competenti. Ma anche in questo caso i pareri non sono vincolanti. Qualora il governo non intenda adeguarsi a essi, dopo un’interlocuzione con le commissioni, il decreto legislativo è comunque emanato.
Anche altre norme dimostrano il ruolo preminente assegnato al presidente del Consiglio e quello secondario del parlamento, ed è una incongruenza. Con l’autonomia differenziata quest’ultimo perderà la propria centralità nello svolgimento della funzione legislativa, a vantaggio delle regioni, con una alterazione in via di fatto dell’assetto costituzionale dei poteri. Sarebbe stato logico, giuridicamente e non solo, che in questo processo il parlamento avesse più voce in capitolo.
Premierato
La riforma sul cosiddetto premierato, com’è noto, introduce l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Servirà una legge elettorale per disciplinare il nuovo sistema, ma la riforma già prevede che al partito o alla coalizione dei partiti che sostengono il presidente eletto sia assegnato un numero di seggi sufficiente per avere la maggioranza nell’assemblea legislativa (“premio di maggioranza”).
In altre parole, chi prende più voti e diviene capo del governo trascina con sé una maggioranza parlamentare, garantita in ambedue le camere attraverso il “premio” attribuito al partito o alla coalizione che esprime il vincitore. Ciò significa, in ultima istanza, che la maggioranza in parlamento non sarebbe più eletta dai cittadini, ma risulterebbe determinata dal legame con il premier.
Si realizza così la concentrazione dei poteri nelle mani di un unico soggetto che regge i fili non solo dell'esecutivo, ma anche delle camere, e senza alcun rafforzamento di altri poteri in funzione di bilanciamento e controllo.
Questa riforma andrebbe così a svilire, ancora più di quanto già non sia, il ruolo dell’assemblea rappresentativa, le cui competenze sono state sostanzialmente svuotate nel corso del tempo, con un peso sempre minore nella produzione legislativa. Basti pensare all’ingente numero di decreti-legge, all’abuso della questione di fiducia, al ricorso ai cosiddetti maxi-emendamenti, e non solo.
Parlamento e presidente del Consiglio
Considerata la situazione del parlamento, bisognerebbe riequilibrare a favore di quest’ultimo i poteri dell’esecutivo. Ma le riforme vanno in direzione opposta, rafforzando presidente del Consiglio e governo a scapito dell’assemblea legislativa e di altri poteri. Perché l’esecutivo Meloni procede in questo modo, nonostante da anni sia unanimemente stigmatizzata la compressione del ruolo dell’organo che, nella nostra architettura costituzionale, è chiamato a esprimere la volontà popolare? La risposta è fin troppo semplice. Ed è inquietante.
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