Per la leader «risultato storico», «vincono il Pd e il campo progressista». La strada della coalizione sembra segnata, anche il M5s ormai dice sì
«Una vittoria storica per il Pd e il campo progressista. È irrevocabile, le città hanno bocciato la destra che governa e mandato un messaggio chiaro a Giorgia Meloni: basta tagli alla sanità, basta salari bassi e no all’autonomia differenziata».
La segretaria del Pd dice giusto poche parole alle tv, rimandando i cronisti alla conferenza stampa di stamattina. Ma al Nazareno si esulta. E «abbiamo stravinto» è l’espressione che rimbalza. «Uno splendido risultato che, dopo solo due settimane, premia nuovamente il Pd e il centrosinistra», secondo il responsabile enti locali Davide Baruffi.
Finisce sei a zero la sfida con la destra nei capoluoghi di regione (Firenze, Bari, Campobasso, Perugia, Potenza e Cagliari), da due iniziali, con tre capoluoghi strappati alle destre e uno ai Cinque stelle (Campobasso). «Un cappotto che nessuno avrebbe pronosticato», secondo Baruffi. E dei nuovi sei sindaci, «tre sono sindache», sottolinea Elly Schlein. Per il Pd questa tornata è la prima in cui si sono confrontate le leadership di Meloni e Schlein: in quelle precedenti, assai meno fortunate, la segretaria aveva trovato i giochi già fatti, e le campagne elettorali già “apparecchiate”.
Diciassette a dieci
Prima del voto 13 capoluoghi erano governati dal centrosinistra, 13 dalle destre, due dal M5s e uno da una lista civica. È finita 17 a 10 per il centrosinistra, più due vinti da candidati civici (Avellino e Verbania). I Cinque stelle perdono i loro due capoluoghi, ma in compenso conquistano San Giovanni in Rotondo, il paese di padre Pio, dove Giuseppe Conte aveva chiuso la campagna elettorale.
I numeri del centrosinistra a guida Pd sono eloquenti. Ma a guardarci dentro, il Pd e i suoi alleati possono leggere affermazioni ancora più significative. Il risultato di Firenze, per esempio: FdI e Lega avevano sognato di battere la sinistra a casa sua nascondendosi dietro l’ex direttore degli Uffizi Eike Schmidt. Matteo Renzi al primo turno aveva giocato in proprio, sperando di essere determinante al secondo. Colpaccio fallito: è finita 60,6 per cento a 39,4 per la candidata Sara Funaro. La destra al primo turno non è entrata in partita; al secondo il centrosinistra ha confermato i suoi voti, e gli elettori di destra non sono andati a votare. Bollando così l’esperimento di Schmidt come un tentativo velleitario.
La destra fallisce l’assalto anche a Bari, comune di cui ha chiesto lo scioglimento, dopo le ondate di inchieste e arresti che avevano lambito la maggioranza di Antonio Decaro e quella regionale di Michele Emiliano. Vito Leccese, collaboratore ed erede di Decaro, finisce al 70,3, più che doppiato l’avversario di centrodestra, Fabio Romito. È la vittoria che Schlein considera «la cartina al tornasole» del suo nuovo corso. Qui Conte aveva fatto saltare le primarie, provando a inchiodare il Pd e la segretaria alla «questione morale». E il candidato M5s Michele Laforgia aveva scelto di correre in proprio. Schlein è arrivata in città a difendere il sindaco e i militanti dalle accuse nel mucchio, e poi è tornata due volte a sostenere il candidato Vito Leccese. E alla chiusura della campagna per il ballottaggio, ha invitato Laforgia sul palco: per chiudere la storia delle risse fratricide.
Potenza ribalta le regionali
Piena di significati anche la vittoria a Potenza. Il candidato della destra, sconfitto da Vincenzo Telesca, è Francesco Fanelli, leghista, che aveva sostituito in corsa il sindaco Mario Guarente, poco amato in città (è un eufemismo). Fanelli è il vice di Vito Bardi, il presidente della regione, nonché assessore alla (disastrata) sanità lucana. Anche lui è un uscente: a più di un mese dalla proclamazione, Bardi non ha ancora la nuova giunta. Il voto del capoluogo ribalta il risultato delle regionali: racconta che in Basilicata il centrosinistra avrebbe vinto se non avesse preso una serie di pali sul candidato.
Altro miracolo a Perugia: con un campo molto largo Vittoria Ferdinandi scalza l’avversaria Margherita Scoccia e riporta i progressisti “a casa”, dopo dieci anni di governo della destra. Un buon viatico per le regionali che si svolgeranno in autunno. La coalizione vince ancora a Cremona e a Vibo Valentia. Risultati anche nei centri più piccoli: nel Lazio, ad esempio, Tarquinia e Civitavecchia e Palestrina, considerate non contendibili, vengono riconquistate.
Ma nei risultati c’è anche qualche zona d’ombra. Ed è bruciante: a Lecce il sindaco Carlo Salvemini cede il passo al ritorno in grande stile dell’ex sindaca Adriana Poli Bortone, storica dirigente Msi. A Rovigo la civica Valeria Cittadin stacca il grillino Edoardo Gaffeo. A Verbania il centrosinistra perde a favore di un civico, e così ad Avellino. Nei comuni “minori” della Toscana il risultato è in chiaroscuro: c’è la vittoria a Firenze, ma nelle altre 17 città il ballottaggio non finisce sempre bene: il Pd conferma nove sindaci ma ne perde sei, la destra ne guadagna quattro. Un promemoria per le regionali del prossimo anno.
Affluenza ai minimi
Pessima notizia, quella dell’affluenza: crolla al 47,7 per cento dal 62,8 del primo turno. Il risultato è preoccupante, in particolare nelle città dove il risultato veniva considerato scontato. A Bari per esempio si ferma al 40,20 per cento, contro il 59,68 del primo turno.
La destra ammette la sconfitta. E dopo una botta così, è difficile che rispolveri la richiesta di abolizione dei ballottaggi: sarebbe palesemente una furbata. Ma Ignazio La Russa ci prova subito: «Il doppio turno incrementa l’astensione», dice, «occorre ripensare alla legge elettorale per le amministrative».
Il risultato carica ancora di più il Pd e spinge verso la rinascita della coalizione, che comunque al primo turno era stata stretta in 22 città grandi su 27. «Firenze, Bari, Perugia, Potenza, Campobasso. L’aria delle città rende liberi», scrive sui sociali il commissario europeo Paolo Gentiloni.
Di certo rende la segretaria del Pd ancora più solida, nella sfida con Meloni ma anche all’interno del suo partito, cosa mai banale, trattandosi del Pd. Anche il M5s, che ha un risultato assai meno smagliante, va in direzione unitaria: pur «nel rispetto delle diversità e differenti identità», dice una nota, il movimento lavora «per costruire l’alternativa al governo Meloni».
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