- Il leader di Azione ormai guastatore del centrosinistra verso un nuovo tira e molla. A gamba tesa nel congresso di Letta&Co. Nel Lazio avverte: no ai grillini, schieriamo una personalità democratica.
- L’assessora Lombardi rimanda la questione delle alleanze: «In regione stiamo lavorando anche con Iv e Azione. Quando sarà il momento tireremo le somme». Ma i pentastellati della Pisana hanno una stella polare che indica la via, e la via è «nessuna rottura» con il Pd.
- Da Azione nessun dubbio: «Se il Pd si allea con M5s noi schiereremo una candidatura di peso, e di provenienza Pd». E così la regione rischia di diventare un pacco dono a Giorgia Meloni.
Essere o non essere alleato del Pd? Che in un certo senso è un po’ come chiedersi essere o non essere Calenda? Dopo aver portato a casa un soddisfacente 8 per cento alle politiche, presto l’ex ministro si ritroverà alle prese con lo stesso dilemma della scorsa estate, e cioè se allearsi o no con il Pd stavolta nelle regionali di Lazio, Lombardia, Molise e Friuli Venezia Giulia. Dilemma politico ma anche un po’ esistenziale per un leader accusato (ieri, per tutto il giorno, da una parte del Pd) di aver fatto eleggere una valanga di parlamentari di destra. E che se ripeterà lo schema del 25 settembre rischia di laurearsi capo-guastatore del centrosinistra.
Compagni che sbandano
Lunedì sera Calenda e Matteo Renzi, dopo un incontro, hanno fatto sapere che sulle regionali, «ogni decisione verrà presa insieme a tempo debito». Ma ieri dalle pagine di Repubblica Calenda è entrato a gamba tesa nell’imminente congresso Pd lanciando un appello ai compagni che sbandano verso i Cinque stelle: «Decidete una buona volta chi siete e da che parte state», «Esiste una sola scelta da compiere: progressisti o populisti».
Dal Pd per tutto il giorno sono arrivate repliche risentite – tranne Beppe Fioroni, ex dc di lungo corso e oggi consigliere del ministro Lorenzo Guerini – che in sostanza gli ha dato ragione. Calenda parla di una prospettiva nazionale. Ma pensa anche a quelle locali. A partire dal Lazio, al voto fra gennaio e febbraio, (l’iter partirà con le dimissioni del presidente della regione Nicola Zingaretti, neoeletto alla camera).
In realtà sulle regionali solo il 2 ottobre Calenda aveva detto altro: «Il sistema elettorale è quello che è, non prevede ballottaggio e ne terremo conto per le eventuali alleanze».
Non è quello che pensa l’ex ministra Maria Elena Boschi, la renziana più scatenata contro il Pd e la più ascoltata da Renzi. La condizione posta però è non allearsi con M5s. Da questa parte Giuseppe Conte lancia segnali di indisponibilità a tornare al vecchio fidanzamento con il Pd.
L’assessora Roberta Lombardi rimanda la questione: «In regione stiamo lavorando tutti assieme anche con Iv e Azione. Quando sarà il momento tireremo le somme del percorso fatto in questi due anni». Ma i pentastellati della Pisana hanno una stella polare che indica la via, e la via è «nessuna rottura» con il Pd.
Soprattutto se il candidato del centrosinistra sarà il vice di Zingaretti Daniele Leodori, per molti ormai l’unico nome credibile in campo. In realtà in corsa resta anche l’assessore alla sanità Alessio D’Amato, che non considera un ostacolo alla sua candidatura la condanna della Corte dei Conti a risarcire la sua stessa regione di 275mila euro «utilizzati indebitamente» per i giudici.
Lui si dichiara «estraneo ai fatti» e ha presentato ricorso. Nei prossimi giorni nell’agenda di Enrico Letta c’è un incontro con D’Amato: gli andrà a confermare la sua intenzione di candidarsi. Uscito dai radar, per ora, il “terzo uomo” l’ex europarlamentare Enrico Gasbarra.
Il segretario regionale Bruno Astorre, alleanzista e franceschiniano (come Leodori), ogni giorno predica «tenacia, pazienza e umiltà». Quanto alle obiezioni di Calenda, ieri minimizzava: «Mi sembra che ponga un tema nazionale».
Il tema “locale” invece per Azione si declina con alcuni numeri: alle amministrative romane, al primo turno, ha preso il 19,8 per cento. Nel Lazio alle politiche le destre hanno preso il 44 per cento, il “campo largo” il 42, il Terzo Polo il 9. Secondo la versione del Pd, se alle regionali il Terzo polo corresse da solo, non sarebbe in condizione di vincere, rinuncerebbe agli eventuali eletti e vedrebbe diminuiti i consensi.
Naturalmente senza parlare del pacco-dono della regione al candidato di Giorgia Meloni. La versione di Azione contiene un ragionamento «sui sistemi di potere del Pd di Roma e Lazio» e alla fine contiene un avviso, forse una notizia: «Se il Pd si allea con M5s noi schiereremo una candidatura di peso, e di provenienza Pd». La decisione arriverà a novembre. L’orientamento però è correre da soli. E invece allearsi in Lombardia.
Inter- Milano
In Lombardia la discussione è più indietro. La destra è divisa: Letizia Moratti è determinata a correre anche senza l’avallo della coalizione, l’uscente Attilio Fontana altrettanto, Salvini non sente ragioni per rinunciare al suo uomo (a Fdi andrà il candidato del Lazio e a Fi è già andata la presidenza della Sicilia).
Lì i Cinque stelle non sono determinanti. Lo è il Terzo Polo, che potrebbe essere tentato dall’appoggio a Moratti. O convergere su un nome dem: dopo la sconfitta elettorale Carlo Cottarelli non è più in pole position, dove invece c’è Irene Tinagli. Beppe Sala si è sfilato, ma la frattura delle destre, insieme al pressing Pd, potrebbero convincerlo. «Per provare a vincere in Lombardia dobbiamo superare la logica dell’autosufficienza», secondo Alessandro Alfieri, lombardo di peso nel Pd e appena rieletto al senato, «Impariamo dai nostri errori, quelli per i quali oggi ci troviamo all’opposizione».
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