L’ex ministro e leader di Azione è pronto alla candidatura contro Virginia Raggi, ma ancora non ha deciso se lo farà cercando di costruire una coalizione che includa il Partito democratico o spaccando la sinistra
- Né tavolo delle alleanze per la Capitale, né primarie. L’ex ministro: «Le decisioni sono mie e le prenderò indipendentemente dal Pd». Vuole correre in modalità outsider, contro tutti quindi anche contro il Pd
- Niente da perdere: da solo porterebbe la sua Azione a un’onorevole percentuale, più del 3 per cento nazionale a cui è dato dai sondaggi, che gli consentirebbe di non dichiarare il fallimento
- Renziani e centristi del Pd chiedono al segretario Zingaretti di abbandonare l’idea dei gazebo e fare un patto con Calenda. Ma dovrebbe rimangiarsi la parola. Aveva appena detto: «Decidono i territori»
Come certe sfortunate corse di auto in cui i piloti sbandano, sbattono e prima della curva sono già fuori pista, l’avvio delle macchine per la scelta del candidato sindaco (o sindaca) nella Capitale rischia subito la falsa partenza. Almeno sul fronte sinistro. La corsa in solitaria di Carlo Calenda, data per certa da chi ci ha parlato, raccoglie la hola dei renziani di Roma, una pattuglia che nel palmarès vanta la defenestrazione del sindaco Ignazio Marino e la conseguente sconfitta contro con la sindaca pentastellata Virginia Raggi.
L’endorsement provoca reazioni nel Pd romano e nazionale. Ciascuno gioca un ruolo: gli esponenti del primo fanno i poliziotti buoni e invitano l’ex ministro a sedersi al tavolo della coalizione, mercoledì 14 ottobre. Quelli del secondo fanno i cattivi e lo avvertono che da candidato di Italia viva «farebbe la fine di Scalfarotto». Nel senso di Ivan, l’aspirante presidente in Puglia spiaggiato a quota 1,6 per cento.
Primarie no grazie
Calenda non ha intenzione di sedersi al tavolo, né di sottoporsi alle primarie: «Le decisioni sono mie e le prenderò indipendentemente dal Pd» twitta.
Non ha ancora deciso se intraprendere la corsa in modalità outsider, contro tutti quindi anche contro il Pd; o in modalità indipendente ma con una coalizione che lo sostenga.
La prima strada porterebbe la sua Azione a un’onorevole percentuale, certo più del 3 per cento nazionale a cui è dato dai sondaggi, che gli consentirebbe di non dichiarare il fallimento; perché a suo tempo ha promesso che «se ci danno al 3 non andiamo alle elezioni». L’effetto collaterale sarebbe spaccare il centrosinistra e azzopparne il candidato (o la candidata). La seconda strada, l’accordo, è impraticabile. Di fatto.
Intanto perché il segretario Nicola Zingaretti ha appena benedetto le primarie, a cui da mesi si preparano alcuni candidati: la senatrice Monica Cirinnà, il consigliere regionale Paolo Ciani, il presidente dell’VIII municipio e portavoce del movimento Liberare Roma, Amedeo Ciaccheri, l’attivista, Tobia Zevi, e il deputato di +Europa, Riccardo Magi.
La pandemia rende ogni giorno più impraticabile l’idea di aprire i gazebo, ma una forma di legittimazione popolare dell’alleanza – fra partiti e movimenti civici – sarebbe un buon lancio per il vincitore. I pontieri di questa parte cercano di evitare la rottura: «Calenda è un uomo capace e combattivo. Se dovesse decidere di candidarsi dovremmo fare di tutto per tenerlo ancorato alla alleanza progressista. Infatti è invitato al tavolo dell’alleanza che deve essere sovrano», spiega Massimiliano Smeriglio, suo compagno di banco a Bruxelles ma nella capitale regista di Liberare Roma.
«Poi, lo dico con rispetto, anche lui dovrà decidere che tipo di operazione vuole fare. Se al centro c’è l’amore e la preoccupazione per Roma, o una mossa per la visibilità del proprio progetto politico. Tutto legittimo, ma sono cose diverse».
Sostenitori
Dall’altra parte ci sono consigli meno preoccupati dello sbando che provocherebbe a Roma un Pd arreso all’outsider. Batte un colpo Giuseppe Fioroni, ex dc doc, oggi corrente Base riformista del ministro Lorenzo Guerini e dell’ex ministro Luca Lotti: «Calenda è il candidato più autorevole. Il Pd non indugi».
Fioroni invita Goffredo Bettini, molto ascoltato dalla segreteria, a consigliare ai dem di costruire una proposta fra «progressisti e liberal-popolari». Gli fa eco Lucio D’Ubaldo, altro ex dc doc, ex montiano come Calenda, tessitore di una rete di personalità centriste fuori dal Pd che guardano anche ai forzisti a disagio nella destra a trazione Lega: «Calenda ha la possibilità di abbattere le paratie che separano artificialmente molti elettori di centro, privi oramai di adeguata rappresentanza». Ma Bettini si chiama fuori: «Il compito di scegliere è del gruppo dirigente romano del Pd in rapporto a quello nazionale», «non mi si metta in mezzo, non si cerchino alibi».
Pasticcio per il Pd
Un pasticcio per il Pd, che non può cedere alle condizioni di Calenda ma non vuole rompere con lui. Ma un pasticcio anche per Calenda, che viceversa non può accasarsi con il Pd ma neanche fare la parte di quello che rompe: alle urne non porta mai bene. Il vecchio gioco del cerino è in pieno svolgimento.
Nel frattempo si fa il nome di un altro ex ministro montiano, Fabrizio Barca, che però a stretto giro smentisce di essere interessato. Magi, che apprezza Calenda, chiede al Pd un’operazione verità: «Non vuole fare le primarie, lo dica e affronti la situazione».
Nella storia non manca un’incognita giudiziaria: il 19 ottobre il processo d’appello a Raggi (l’accusa è falso in una nomina poi ritirata) potrebbe metterla fuori gioco per la corsa. Riaprendo l’ipotesi di un’alleanza Pd-Cinque stelle.
Calenda, in attesa dei sondaggi che lo faranno decidere, per ora spiega di non essere del tutto ostile al Pd: «Nonostante la linea opposta sul governo, quando c’è stato da sostenere un buon candidato come Bonaccini lo abbiamo fatto. In Azione ragioniamo così, qualità prima dell’appartenenza». La destra della Capitale non è messa meglio, quanto alla scelta del nome. Ma aspetta le mosse dell’avversario, e nel frattempo può tranquillamente mangiare popcorn.
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