- «Legittimo che Letta chieda conto di alcune simpatie di Meloni, come Orbán, ai polacchi di Giustizia e libertà. E inutile invece drammatizzare la campagna elettorale con un allarme che non c’è. Se vincesse Meloni, nessuno metterà il mitra a spalla per fare la Resistenza».
- «La questione della fiamma è un tema che prima o poi lei dovrà affrontare. È un elemento di continuità simbolica, un tratto identitario. Ma la inchioda a un passato».
- «Per chi conosce la destra italiana, lei è protagonista di un cambio generazionale. Nelle sezioni del vecchio Msi trovavi i manifesti della Rsi e le foto di Borghese. Il limite di Meloni sta nel tratto militante di un piccolo mondo chiuso».
La classe dirigente di Fdi non nasce dal nostalgismo fascistizzante e la sinistra sta sbagliando i toni della campagna elettorale, secondo il politologo Alessandro Campi. «Resta che l’appuntamento del centenario della marcia su Roma sarà una prova di responsabilità per Giorgia Meloni: se qualcuno dei suoi avrà atteggiamenti ambigui dovrà trovare la forza di troncare».
«Con gli appelli per salvare la democrazia di Letta non sono indulgente. Non si può passare allegramente dalla partecipazione ad Atreju, al caffé al tavolino del Meeting di Rimini con Giorgia Meloni, fino all’allarme per la democrazia a rischio e all’accusa di eversione. Riduce il fascismo a un espediente da campagna elettorale, svaluta persino l’antifascismo.
E non è neanche efficace: se tanti elettori si stanno orientando a votare Fratelli d’Italia significa che questa storia non convince nessuno. Almeno a destra». Il professore Alessandro Campi insegna Scienza politica all’università di Perugia e conosce bene la destra italiana: nel 2010 era l’ideologo di Gianfranco Fini. Se ne andò sbattendo la porta prima del congresso del disastro, nel febbraio 2011. In questi giorni dà alle stampe, con Sergio Rizzo, L’ombra lunga del fascismo. Perché l’Italia è ancora ferma a Mussolini (Solferino).
Il leader del principale partito della sinistra non dovrebbe dire agli elettori che, dal suo punto di vista, la destra fa male al paese?
Intendiamoci: è legittimo che chieda conto di alcune simpatie di Meloni, da Orbán, ai polacchi di Giustizia e libertà, nel momento in cui sta per assumere responsabilità di governo. E inutile invece drammatizzare la campagna elettorale con un allarme che non c’è. Un gioco ipocrita: il 26 settembre, se vincesse Meloni, nessuno metterà il mitra a spalla per fare la Resistenza. Tutti sanno che non è quello il problema. Il problema è la situazione sociale ed economica del paese. L’allarme, nel caso, è se ritiene che questa destra non sia attrezzata per il governo.
Letta dice: se vince la destra si farà da sola le riforme. Cosa non le torna?
Il dato formale dice che se i numeri glielo consentono potrà farlo. Ma è ragionevole pensare che non lo farà. Dubito che su una materia così delicata la destra si esponga a contestazioni e proteste, e che fra tutti i problemi che avrà si metta a riformare la Costituzione.
Meloni promette il presidenzialismo, senza complessi.
Un conto è una posizione che, peraltro, per la destra è storica ma anche un po’ retorica, un vecchio cavallo di battaglia. Ma non c’è una proposta articolata, il che la dice lunga. E comunque mi sembra inverosimile una riforma così fatta a colpi di maggioranza. Complessivamente la sinistra sbaglia il tono: colpisce la destra su argomenti sui quali quantomeno l’elettorato si dimostra insensibile.
Letta non ha definito la destra di FdI eversiva.
Ma allude alla sua doppiezza. Invece bisogna valutare le cose per quello che sono. Giorgia Meloni nell’autobiografia racconta la sua formazione politica e quella del suo gruppo dirigente. Per motivi generazionali si sono tutti formati nel 1993 e 1994, il Fronte della Gioventù di quegli anni faceva le battaglie per la legalità suggestionate dalla figura di Paolo Borsellino. Un’esperienza politica e militante che non si può ricondurre al neofascismo dei padri, al nostalgismo della vecchia guardia filorepubblichina.
In giro per l’Italia qualche dirigente FdI non ha perso il vizio del saluto romano o dell’invito a cena con fascio littorio. Per non parlare della fiamma nel simbolo. Fenomeni trascurabili?
Ma no, è un elemento simbolico e identitario profondo. Ma che senso ha chiedere di cambiare un simbolo appena depositato al Viminale per le schede elettorali? È teatro. Il problema c’è, e c’è anche qualche episodio diciamo di fascismo sentimentale, penso al caso Fidanza, ma quando lei dice che non è mai stata impregnata di nostalgismo fascistizzante dice la verità. Sono cresciuti con la letteratura fantasy. La loro educazione sentimentale è Tolkien. Poi si può contestare che è una formazione labile. Io per esempio non ho mai subito la suggestione del fantasy che ti distanzia pericolosamente dal mondo reale.
Lei all’epoca di Fini era fra chi chiedeva l’evoluzione della cultura politica della destra italiana.
Ma noi ci opponevamo a un gruppo dirigente diverso, per motivi generazionali. Di quel mondo in FdI è rimasto solo Ignazio La Russa. E qualche pezzo di elettorato secondo cui Mussolini ha fatto “anche cose buone”.
Come Meloni a 19 anni. È sicuro che l’autobiografia sia una fonte attendibile?
Non necessariamente, certo. Ma per chi conosce la vicenda della destra italiana, lei è protagonista di un cambio generazionale. Nelle sezioni del vecchio Msi trovavi i manifesti della Rsi e le foto di Junio Valerio Borghese. Guardi, il limite di Meloni sta nel tratto militante di un piccolo mondo chiuso. E finché devi tenere in piedi un movimento da quattro per cento va bene, anzi è stato decisivo per far nascere FdI da una scissione del Pdl in un momento in cui Berlusconi si stava comprando quel che restava di An. Ma quando diventi un partito da oltre il 20 per cento la retorica da gruppo chiuso è un problema: significa fidarsi solo dei propri e non essere in grado di aprirsi a mondi diversi. È lì che Meloni si gioca la partita della vita. Deve uscire dal ghetto politico ideale e navigare in campo aperto. Ma consapevole di questo negli ultimi due anni lei ha lavorato molto sul piano dei rapporti istituzionali e internazionali. Non solo con i cattivi d’Europa.
Trump, Orbán.
Intanto Trump ha fatto un endorsement per Conte. E comunque il repubblicanesimo americano non è Trump, ci sono think tank, network, fondazioni, imprenditori.
Torniamo alle origini. La scissione da cui è nata FdI fu fatta proprio dagli avversari dell’evoluzione liberale di Fini.
Lì scattò un meccanismo di sopravvivenza. Fini tentò la strada di un partitino suo e andò come andò, in rotta con Berlusconi che a sua volta fece capire che non avrebbe ricandidato nessuno di An. Quel mondo si sentì abbandonato e tradito da Fini e cercò di salvare il salvabile. Questo è l’innesco, e il gruppo dirigente sono tutti quelli di Azione giovani, cresciuti con lei. Fu fatto un nuovo piccolo Msi, con un appello identitario: stiamo insieme o spariremo per sempre. E andò avanti così finché la leadership di Meloni non si è stabilizzata, si è accreditata sul fronte conservatore, e non è iniziata una storia diversa. Da due anni il salto: ha lucrato sulla crisi di Salvini, si è messa pervicacemente all’opposizione. La leadership femminile, anche, ha funzionato.
Diceva, un Msi rifondato. E la fiamma resta nel simbolo. Cioè, simbolicamente, il nuovo partito si innesta nella storia non della Repubblica italiana ma della Rsi. Non crede?
È un tema che prima o poi lei dovrà affrontare, tanto più se diventa una forza col 25 per cento. Sollevare il tema in campagna elettorale è insensato, ma sono certo che lei la questione l’affronterà. In quella fiamma c’è un richiamo sentimentale fortissimo per certi mondi, e un elemento di continuità simbolica, un tratto identitario. Ma la inchioda a un passato, a un’origine sepolcrale, necrofila, mitologica, comunque di un mondo di reduci.
L’atteggiamento sul 28 ottobre, a cento anni dalla marcia su Roma, sarà l’esame di maturità per Meloni?
È una ricorrenza che riguarda la storia d’Italia. Certo, grava di più su quelli che a vario titolo sono stati eredi e prosecutori del fascismo, quindi in parte anche su Meloni. Finché il fascismo non sarà consegnato definitivamente alla storia tornerà sempre come un fantasma nel dibattito pubblico. Dubito che Meloni avesse intenzione di festeggiare la ricorrenza. Non dubito invece che ci saranno manifestazioni nostalgiche, anche perché in Italia ci sono gruppi politici, come Casapound, riconducibili al fascismo storico e al radicalismo di destra. Che peraltro detestano FdI, ne disprezzano la svolta atlantista e filo Nato. Se in FdI c’è qualcuno che ha atteggiamenti ambigui, lei stessa si porrà il problema di metterlo definitivamente fuorigioco. Anche perché ormai si tratta di fascismo da operetta: parliamo di gente che fa il saluto romano mentre mangia le tagliatelle. Se dovesse succedere, dovrà avere la forza di troncare. Ma la forza gliela darà il voto massiccio. Potrà dare una prova di responsabilità: perdere l’elettorato nostalgico. Non le serve. Compreso qualche tetragono dirigente di partito.
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