Il Terzo settore è in prima linea per ridurre le disuguaglianze nell’accesso a una vita degna per le persone che stanno finendo di scontare la pena all’esterno del carcere. Ma all’interno sopravvivere è sempre più difficile. Il caso della cooperativa Città Solare di Padova
Il tempo che non passa mai, l’assenza di una visione nitida del proprio fine pena unita a tormenti e preoccupazioni su come ricominciare quando si uscirà. In un presente in cui le carceri italiane sono al centro di rivolte, nate dalla rabbia per le condizioni disumane di detenzione peggiorate dal sovraffollamento, e in cui i detenuti muoiono o scelgono di ammazzarsi, il tema del dopo resta al centro dei pensieri di molti.
Le domande sono molte: Cosa farò quando uscirò? Dove vivrò? Come farò a trovare un lavoro se non ho soldi e un posto dove tornare? Dopo anni di battaglie di associazioni e cooperative impegnate nella promozione di misure alternative al carcere, alcune risposte sono arrivate.
Il progetto
La cooperativa Città Solare di Padova ha messo a disposizione, all’interno di un progetto di fine pena per persone detenute, quattro unità abitative presenti sul territorio della città e un’equipe di operatori sociali per il reinserimento delle persone nel post detenzione in carcere.
L’iniziativa, finanziata dalla Cassa delle Ammende (ente del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che sostiene i programmi di reinserimento a favore dei detenuti) è promossa dalla regione Veneto tramite un percorso di coprogettazione.
L’obiettivo è quello di fornire contesti protetti in grado di tutelare chi, in seguito all’ordinanza del magistrato di sorveglianza, esce dalle carceri di Padova (circondariale e di reclusione) per intraprendere un percorso alternativo di detenzione ed essere accompagnato alla fine della pena.
«Abbiamo messo a disposizione quattro alloggi che ospitano 12 persone – dice Mauro Anselmi, coordinatore del progetto – Le unità abitative hanno al massimo tre persone al loro interno» e sono coordinate dal magistrato di sorveglianza che dà l’autorizzazione all’uscita dal carcere per scontare lì la pena.
La cooperativa ha proposto il progetto, seguendo un iter ben preciso: «Gli educatori all’interno del carcere mandano delle segnalazioni rispetto a delle persone che avrebbero i requisiti per uscire, poi sono prese in carico dalla cooperativa tramite una terapeuta che si occupa di valutazione e diagnosi che entra in carcere a conoscere la persona e, dopo la sua valutazione, parte l’iter per l’inserimento degli appartamenti di accoglienza».
Il percorso dura fino alla data del fine pena. L’obiettivo è quello di far uscire le persone dalle carceri, e portarle «all’interno dei territori, delle città. Si cerca di privilegiare territori che sono all’interno di contesti con servizi: supermercati, servizi pubblici e con opportunità di inserimento sociale reali». La cooperativa supporta queste persone con sostegno psicologico, operatori e operatrici formate per offrire supporto nella ricerca di casa, lavoro e percorsi formativi. Ci sono poi tutti tutti gli aspetti relativi al disbrigo delle pratiche burocratiche, ai diritti della cittadinanza e al riavvicinamento con le famiglie d’origine, nel caso questo fosse possibile. Insomma, una rete di aiuto e relazioni per reinserirsi in un mondo che, spesso tratta in modo non benevolo chi ricomincia a vivere fuori dalle mura di un carcere.
Dal carcere alle strutture protette
Francesco (nome di fantasia) parla della sua esperienza: «Sono una persona consapevole delle difficoltà che ci sono. Ce ne sono state, per uscire dal carcere, a livello di permessi e mancata comunicazione tra l’istituzione e chi ti accoglie: quelli del carcere ti buttano fuori come un bidone delle immondizie».
La sensazione di abbandono è forte: «Sono stato buttato fuori senza un soldo, dovevo avere la paga di quando lavoravo in carcere ma mi dicevano sempre “dopo, dopo”». Francesco lavorava all’interno del carcere grazie all’aiuto dell’assistente sociale che lo aveva supportato nella ricerca di un lavoro, «ma il mio compagno di cella non ha avuto alcun aiuto dentro, ha dovuto tutti i giorni “rompere le scatole” per riuscire a capire se ci fosse la possibilità di lavoro anche per lui».
Inoltre ci sono voluti otto mesi per poter trovare il primo lavoro all’interno dell’istituto di pena: «Facevo il porta vitto. Colazione, pranzo e cena». Come se non bastasse la spesa per beni alimentari e personali, dietro le sbarre, costa più che all’esterno «le cose all’interno del carcere costano, da listino interno, circa 20-30 centesimi in più e questo incide molto per chi non ha soldi».
A questo si unisce il poco tempo che si può passare fuori dalla cella: un’ora al mattino e due al pomeriggio, e d’estate fa molto caldo. «Ci sono 40 gradi dentro, e se vuoi un ventilatore lo devi comprare a trenta-trentacinque euro, che sono tantissimi, contando che poi ti addebitano cinque euro al mese aggiuntivi per l’elettricità. E spesso d’inverno ci facciamo la doccia con l’acqua ghiacciata».
Francesco ha scontato un anno e sei mesi di pena, per poi uscire con l’articolo 21 ( i detenuti possono essere assegnati al lavoro all’esterno) nel 2023. E ricorda nitidamente cosa significhi stare in carcere: «Il problema del sovraffollamento è gravissimo e dentro ci sono persone deboli: uno non può andare in carcere a morire». Ora Francesco lavora per una cooperativa padovana, il lavoro gli piace ma il problema che lo affligge è quello di trovare una casa a fine pena perché, come molte persone che escono, non ha più una rete di relazioni intorno a sé: «Sono rimasto completamente solo e ho dovuto iniziare da zero, tra soldi e amicizie che non c’erano più».
In cella tra topi e scarafaggi
Alvise (nome di fantasia) sta cercando lavoro e vive negli appartamenti della cooperativa Città Solare: «Avrei avuto qualcuno fuori, ma non che mi potesse offrire un alloggio». Mentre attende di trovare una nuova occupazione, parla del tempo passato in carcere: «Cambierei tutto dentro, partendo dalla sanità, le celle, la pulizia». Il tema legato alla salute è ancora una volta centrale. Se si ha necessità di ricevere delle cure bisogna insistere e chiamare più volte per essere visitati. Spesso i detenuti soffrono di dolori fisici ma anche di ansia e problemi legati alle dipendenze: «Le persone detenute chiamano continuamente i secondini perché stanno male, chiedono terapie anche fuori degli orari prestabiliti perché soffrono. Ma bisogna sempre aspettare, anche se serve una pastiglia per dei dolori che non possono attendere. Abbiamo i nostri diritti, anche noi abbiamo bisogno di essere tutelati»». Oltre a questo, le condizioni di igiene sono preoccupanti, tra topi e scarafaggi.
Per Mauro Anselmi il lavoro di accoglienza della cooperativa è fondamentale e crea un ponte tra la vita del carcere e la vita dopo il carcere con «un inserimento socio lavorativo in cui la parte emotiva e relazionale è fondamentale. La discriminante è quella tra la rigidità dell’affettività che c’è in carcere e il creare un setting affettivo all’interno dei nostri appartamenti. Si crea un clima di fiducia, con delle regole: strutture sempre pulite, nessun uso di sostanze o alcol e le visite con altre persone si svolgono sempre all’esterno delle case».
Quello che manca alle persone detenute, soprattutto per certi tipi di reati minori, sono «maggiori opportunità di uscita dal carcere, situazioni di accoglienza alternative, di inserimento lavorativo e formative e queste possono produrre degli effetti eccezionali anche in termini di prevenzione rispetto a delle eventuali recidive».
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