- «Nordio e Piantedosi vengano in aula a chiarire. Non risulta che al ministero ci sia un archivio nel quale vengano riversate le intercettazioni realizzate all’interno del carcere. Sarà importante capire come Donzelli ne è venuto in possesso. E il ministro degli interni dica se è vera la saldatura fra anarchici e criminalità mafiosa».
- Ho difeso il 41 bis, l’ho applicato. Nessuno di noi vuole che Cospito sia liberato né che possa comunicare con l’esterno, ma quel tipo di comunicazioni peculiari dei movimenti politici si possono interdire attraverso altri strumenti. La mia è una perplessità sull’applicazione concreta».
- «Non sarebbe un cedimento dello stato agli anarchici. Si tratterebbe di un diverso regime carcerario. Nessuna trattativa. Si chiede di applicare le norme che già esistono in modo congruo alla situazione».
Sulle parole di Giovanni Donzelli, («la sinistra chiarisca se sta con la mafia e i terroristi») il presidente della camera Lorenzo Fontana è stato costretto a istituire un gran giurì. Ma il deputato ha rivelato, citando documenti sconosciuti ai colleghi e provenienti dal ministero della giustizia, di una «saldatura» fra anarchici e mafia. Per questo l’ex ministro Orlando chiede che Nordio e Piantedosi ora chiariscano in aula.
Quelle che Andrea Orlando definisce «accuse infamanti, in nessun molto accettabili» ieri hanno scatenato la prima bagarre in aula. Il meloniano ce l’aveva con una visita nel carcere di Sassari, per verificare le condizioni di salute dell’anarchico Alfredo Cospito, da parte di quattro deputati dem, fra cui l’ex ministro di Giustizia. «Si può dissentire sulla modalità dell’esecuzione della pena sulla base di un principio generale che riguarda l’esigenza di salvare una vita umana», spiega. «Ma non per questo si può essere accusati di essere collusi». Poi però Donzelli ha ripreso la parola per respingere l’accusa di diffondere notizie riservate del Copasir, di cui è vicepresidente, e ha fatto un altro guaio.
Donzelli ha riferito di un colloquio fra Cospito e un 'ndranghetista, contenuto in un atto pubblico, a suo dire, che ha il ministero della Giustizia. Di che si tratta?
Lo dovrà chiarire. A me non risulta che al ministero ci sia un archivio nel quale vengano riversate le intercettazioni realizzate all’interno del carcere. Sarà importante capire come ne è venuto in possesso, perché a quanto ne so chi ha il compito di valutare i rapporti del Dap, a cui possono essere allegate intercettazioni, è il ministro. Ha fatto una richiesta di accesso agli atti? E sulla base di cosa la domanda è stata accettata?
Chiedete che Nordio venga in aula a chiarire?
Sì. E anche che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, perché Donzelli ha esplicitato il fatto che ci sarebbe una saldatura fra organizzazioni criminali e anarchici. Se fosse vero sarebbe un fatto nuovo.
Chiedete che Donzelli si dimetta da vicepresidente del Copasir per la disinvoltura con cui maneggia informazioni delicate?
Lo valuteremo nel gruppo alla luce delle verifiche con i ministri sui punti da chiarire.
In aula lei è stato “sospettato” di essere contrario al 41 bis.
È falso. Ho difeso il 41 bis, l’ho applicato. Ritengo che sia un regime che deve essere tenuto strettamente legato alla sua funzione, quella di impedire i collegamenti fra carcere ed esterno, prevalentemente, anche se non esclusivamente, per le organizzazioni di stampo mafioso. Quando si esce da quell’ambito bisogna agire con cautela perché ci sono strumenti egualmente efficaci che non hanno tutte le controindicazioni del 41 bis anche nell’alta sicurezza. Nessuno di noi vuole che Cospito sia liberato né che possa comunicare con l’esterno, ma quel tipo di comunicazioni peculiari dei movimenti politici si possono interdire attraverso altri strumenti, come la censura, il divieto di inviare articoli, di ricevere la posta. La mia, ripeto, è una perplessità sull’applicazione concreta, non un dubbio sull’utilizzo del 41 bis per la criminalità organizzata e in alcuni casi anche per il terrorismo.
Nordio può intervenire. Dovrebbe farlo?
Giustamente guarderà gli atti. Ma era giusto da parte nostra sollecitare questa riflessione. E se c’è stata, o è in corso, significa che la questione era fondata.
Sarebbe, cito esponenti della destra e del governo, «un cedimento dello stato agli anarchici»?
Assolutamente no. Si tratterebbe di un diverso regime carcerario. Dopodiché la decisione del ministro deve essere estranea al tentativo di farsi condizionare.
Per Piantedosi lo sciopero della fame di un carcerato non può cambiare l’ordinamento giudiziario.
I pesi sulla bilancia cambiano quando in gioco c’è una vita.
Ma lei nel 2016 non ha sospeso il 41bis al boss Provenzano morente. Perché?
Ho fatto trasferire Provenzano in un centro clinico alle prime avvisaglie della sua malattia. Ha avuto tutte le cure necessarie. Le tre procure interessate davano parere favorevole a superare quel regime, ma la procura Antimafia diceva che poteva ancora dare indicazioni, anche testamentarie, alla sua organizzazione. Ho ritenuto che il principio cautelativo consigliasse di andare in questa direzione. Ma Provenzano non stava morendo perché era al 41 bis, moriva per una sua malattia e ha ricevuto le stesse cure che avrebbe ricevuto in altro regime. E non credo di dover spiegare perché è più semplice dimostrare la pervasività dell’organizzazione mafiosa fuori e dentro il carcere rispetto al movimento anarchico. Per numeri e presenza storica. Questa domanda, se permette, è sintomatico che la facciano quelli per i quali il garantismo riguarda solo i vicini di ombrellone.
La destra usa un linguaggio da anni di piombo, parla di linea della fermezza, dice che non si tratta con i terroristi.
Sono d’accordo. Nessuna trattativa. Si chiede di applicare le norme che già esistono in modo congruo alla situazione. Se è vero quello che dice Donzelli, che c’è stata una saldatura al 41 bis fra anarchici e mafia, c’è da riflettere nella strategia di segregazione utilizzata, anche per non fare gli errori che sono stati fatti negli anni Settanta dove proprio in carcere si realizzò un’alleanza fra criminalità organizzata e terrorismo, rosso e nero.
Peraltro Cospito “parla” ai suoi attraverso il 41 bis.
È il modo più forte con cui sta parlando. Anzi l’attivazione del 41 bis lo ha fatto diventare un riferimento delle dimensioni che ha oggi. Anche questo è un elemento su cui riflettere se vogliamo ragionare sulla strategia più opportuna contro i nuovi fenomeni eversivi. Ma è inaccettabile che discutere significhi essere associati a quei fenomeni. Sono quello che ha istituito la procura nazionale Antiterrorismo e che ha fatto approvare l’ultimo codice Antimafia che a suo tempo venne considerato troppo drastico.
Come si sfiamma la protesta dei compagni di Cospito?
Sanzionando chi viola la legge. E indagando se ci sono collegamenti fuori e dentro il carcere e nei paese in cui questa rete si è sviluppata.
Quando ha incontrato l’anarchico, cosa vi siete detti?
Ci ha confermato la sua volontà di andare avanti con lo sciopero della fame contestando l’istituto del 41 bis e la applicabilità alla sua situazione. Noi abbiamo visto le sue condizioni di salute, chiesto che fosse trasfertito in un centro specializzato. Io ho anche sollevato delle perplessità rispetto all’applicabilità del regime a cui è sottoposto, ma al contempo, in un’intervista del giorno dopo, ho detto che il 41 bis è uno strumento essenziale per reprimere i fenomeni criminali di stampo associativo.
Ha sbagliato all’epoca la ministra Cartabia a erogare quella pena?
Le condizioni evolvono. Può darsi che al momento fosse necessaria. La perplessità è che Cospito è passato da un regime di alta sicurezza senza particolari censure al 41 bis. Forse si poteva esplorare un regime intermedio. Da inviare articoli alla stampa anarchica, da una significativa permeabilità comunicativa, alla segregazione totale. Ed è un elemento che poteva essere considerato anche dopo, perché il 41 bis non è una misura definitiva.
Cospito dice che andrà avanti fino alla fine.
È per questo che siamo andati nel carcere di Sassari. Lo stato deve fare eseguire la pena ma insieme salvaguardare la vita di chi ha in custodia.
Donzelli ha fatto esplodere questa vicenda nel pieno del voto sull’istituzione della commissione Antimafia. Curiosa scelta di tempi. Perché secondo lei?
Non credo che sia un caso, né che Donzelli sia un ingenuo. Forse gli è scappata la frizione rivelando notizie riservate, ma era un attacco a freddo che voleva creare una polarizzazione. Per distrarci dai problemi del governo, ma anche per creare una condizione che giustifichi una politica giudiziaria di tipo repressivo, inaugurata con il decreto Rave e poi con il decreto Ong. L’effetto concreto è stato quello di cancellare il tema delle mafie, che è il dibattito più trasversalmente sottovalutato.
Non se ne parla più, nonostante la Dia dichiari che c’è un’infiltrazione diffusa in molte regioni, che le procure lancino un allarme sui fondi del Pnnr, e che il procuratore antimafia dica che c’è un ritardo negli strumenti con cui si contrastano le mafie. La discussione in aula è stata volutamente portata su tutt’altri temi.
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