Il finanziamento privato, i vuoti normativi in materia di trasparenza dei contributi elettorali, l’assenza di una legge sul lobbying generano effetti dirompenti sul sistema democratico
Le indagini che hanno investito il presidente della regione Liguria, Giovanni Toti, ripropongono, per l’ennesima volta, la questione del rapporto tra politica e interessi privati.
Sono tre, tra gli altri, i punti su cui occorre riflettere: i costi della democrazia, la funzione della rappresentanza politica, le modalità di accesso al decisore da parte dei gruppi di pressione.
È innegabile che le istituzioni della democrazia (e, tra queste, vi sono i partiti) abbiano un costo: come ha documentato l’economista francese Julia Cagè nel suo bel libro Le prix de la democratie (tradotto anche in Italia nel 2020 dall’editore La nave di Teseo), una delle differenze sostanziali tra un sistema democratico e un regime politico dittatoriale è dato dai costi che la collettività supporta per far funzionare i meccanismi partecipativi e, in primis, per consentire alle forze politiche di competere tra di loro, in libere elezioni.
In Italia la quasi totalità di tali spese sono a carico della finanza pubblica: anche i partiti politici continuano a ricevere consistenti somme dallo stato, sia direttamente tramite il ricorso al 2 per mille nella dichiarazione dei redditi dei cittadini, sia indirettamente tramite i gruppi parlamentari a cui la Camera e il Senato versano un assegno mensile in relazione al numero degli eletti.
Le campagne elettorali
Sostanzialmente, dunque, l’unica attività non coperta direttamente da fondi pubblici è quella connessa alle campagne elettorali: per supplire a tale fabbisogno, la normativa consente il finanziamento da parte di soggetti privati nel limite di 100.000 euro annui. Ed è chiaro che un privato finanzia la politica non per un motivo ideologico ma perché ritiene che quel politico possa, qualora eletto, tutelare il proprio interesse.
E qui la questione si fa più complessa e investe in pieno il tema della rappresentanza politica.
Un presidente di regione, un ministro, un parlamentare che, nell’esercizio del proprio mandato, cura gli interessi dei propri elettori (ivi compresi i propri finanziatori), utilizzando mezzi leciti, adempie a un proprio dovere o commette un reato? Quale è il confine tra questi due momenti e chi deve fissarlo? La Costituzione ci dice che ogni membro del parlamento esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato ma ciò non toglie che l’eletto debba rispondere al proprio elettore delle azioni compiute.
Certo, se un candidato riceve finanziamenti da un soggetto privato dietro la promessa esplicita di far approvare atti a lui graditi e in contrasto con l’interesse pubblico, il reato è evidente; ma se quella promessa è in linea con il bene comune, o risponde pienamente agli obiettivi politici di quel partito che si fa?
Regolamentare le lobby
E qui la questione tocca l’ultimo punto. L’Italia è l’unico paese europeo, con la Spagna, a non avere ancora una legge sulle lobby. L’effetto è che l’accesso al decisore pubblico da parte dei gruppi di interesse è legato a fattori di clientela, amicizia o parentela: in un tale far west, dove, nell’assenza di regole, prevale l’amico dell’amico, è evidente che la leva economica diventa il selettore, la chiave di accesso, la formula magica che apre le porte del potente di turno.
Ciò soprattutto se si pensa che l’elenco dei finanziatori privati deve essere reso pubblico solo ad elezioni concluse: in altri termini, l’elettore, al momento del voto, non sa chi ha finanziato il candidato o il partito, potendolo sapere solo nei 3 mesi successivi. Esattamente l’opposto di quello che succede in Gran Bretagna, Germania, Francia, negli Stati Uniti d’America, in Canada o in quasi tutti i paesi democratici.
Il combinato disposto dato dal finanziamento privato della politica, dai vuoti normativi in materia di trasparenza dei contributi elettorali e dall’assenza di una legge sul lobbying produce effetti dirompenti sulla tenuta del sistema democratico ed alimenta – naturalmente – costanti fenomeni corruttivi e situazioni patologici che la magistratura si limita a scoprire (e non certo a creare artificiosamente). Fin quando parlamento e governo non comprenderanno che servono regole certe su questi punti, si continuerà ad alimenterà l’odio verso la politica e la sfiducia verso le istituzioni democratiche.
L’attuale governo, in continuità con il precedente, fa largo uso della decretazione d’urgenza, spesso pur in assenza dei requisiti di necessità e urgenza. Perché allora il ministro della Giustizia Carlo Nordio non presenta al Consiglio dei ministri un decreto legge sul lobbying in cui si disciplina anche la modalità di finanziamento da parte dei gruppi di pressione delle forze politiche? Cosa altro deve accadere perché si intervenga?
© Riproduzione riservata