Lui, l’ex sindaco Ignazio Marino «marziano», torna dallo spazio - in realtà torna da Philadelfia dove il chirurgo oggi lavora alla Thomas Jefferson University come senior vice president per gli Affari Strategici – per dare la benedizione al suo ex assessore Giovanni Caudo, candidato alle primarie del centrosinistra romano: «Lo voglio sostenere», ha scritto sui social, «perché sa integrare la sua visione urbanistica con tutte le necessità: dai trasporti ai servizi scolastici, che sono necessari per migliorare la qualità di vita dei romani e dei tanti che vengono a visitare la Capitale».

Roberto Gualtieri, il candidatissimo blindatissimo del Pd romano, ha risposto con un apprezzamento e un sospiro di sollievo: «Le primarie saranno una bellissima festa della partecipazione, sono contento che Marino abbia invitato al voto per un candidato, tra l’altro una persona di grande qualità».

Dunque ormai ci sono rapporti cordiali fra il sindaco che nel 2015 fu defenestrato – politicamente parlando – dal balconcino più bello del mondo, quello che dà sui Fori Imperiali, e il partito che lo ha tirato giù, cioè il suo di allora? Forse. Ma forse è un solo armistizio, che non è una pace. Perché il passato non passa, se non si fanno i conti con quel «fattaccio» della storia recente della sinistra romana. Uno di quegli avvenimenti su cui nella Capitale ci si divide ancora. Come fra romanisti e laziali.

Un conflitto irriducibile, uno strappo irricucibile: da una parte Marino e i suoi estimatori, che definiscono «ingiuria democratica» la scelta di quei consiglieri comunali che si dimisero davanti a un notaio – non «da un notaio» come recita la vulgata, erano al gruppo del Pd al Campidoglio – per mandarlo a casa, piuttosto che votargli la sfiducia in aula (perché non volevano votare insieme alle destre, è la versione ufficiale, Marino ormai era imprevedibile, si era dimesso ma poi aveva ritirato le dimissioni). Dall’altra parte quelli del Pd di allora, cioè del Pd di Renzi, e del Pd di adesso – in gran parte gli stessi dirigenti – per i quali «Marino era inadeguato» e «all’epoca Roma era un disastro», ergo molto meglio affrettarsi a consegnare la città a Virgina Raggi, come puntualmente avvenne.

Il prossimo 20 giugno le due scuole di pensiero, sarebbe forse meglio dire le due fazioni, si incroceranno sotto gli stessi gazebo delle primarie. Fingendo di ignorarsi, in realtà combattendosi ancora per interposti candidati. Perché quel fattaccio resta per la sinistra romana, civica e non, una specie di trauma d’origine, un rimosso, un fuori tema rigorosamente bandito dai confronti ufficiali. Che però talvolta riaffiora, come lo zampillo gelido di un fiume carsico, all’improvviso, nell’imbarazzo generale.

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Le opposte verità

La Capitale all’epoca si spaccò. Oggi molti fan di Marino, cioè gli sconfitti, sono ex Pd che si sono ritirati dal fronte della militanza. Anche i civici, quelli che facevano le manifestazioni in Campidoglio mascherati da alieni per sostenere «il marziano», per lo più sono andati a casa. Come Emilia Della Nave, fondatrice delle associazioni «Parte civile» e «Marziani in movimento». Che vive, confida, «queste primarie con grande tristezza perché il Pd è rimasto immobile, non è riuscito a far crescere una classe dirigente nuova e aperta alla città. Se il Pd fosse stato capace di elaborare quella storia, e ammettere i suoi errori, avrebbe riconquistato almeno una parte del suo elettorato». Gli ex marziani che non sono tornati a casa sono oggi divisi: alcuni – pochi - appoggiano Gualtieri, altri Caudo, altri ancora Paolo Ciani, portavoce di Demos. Dall’altra parte ci sono i vincitori dell’epoca.

A cominciare dall’allora commissario del Pd cittadino Matteo Orfini che, numeri alla mano, dimostra che la realtà è tutta un’altra e che dopo quegli anni il Pd della Capitale è rinato: «Scambiare causa e effetto è una narrazione tipica da salotto del centro, da partito della Ztl», spiega con l’esibita pazienza di chi ha dovuto rispondere più volte alla stessa obiezione, «Come la storia del notaio: nessun consigliere andò dal notaio, la presenza di un notaio è richiesta dal testo unico del regolamento comunale. Ma la sostanza è un’altra: il Pd perse per il discredito in cui era finito per le vicende di Mafia Capitale, che arrivarono fin dentro la giunta.

Il sindaco fu un disastro. Poi rivoltammo il partito come un calzino. E dalla prima scadenza politica successiva a quel 2015 il partito romano ha ricominciato a crescere. Nel orribile 2018 qui a Roma prendemmo quattro punti più della media nazionale, e vincemmo quattro collegi su otto, un risultato subito dietro le regioni rosse. E oggi siamo il primo partito in città».

Opposte verità. Ma la prima a capire che un elettorato «mariniano» ancora c’è e può essere scippato alla sinistra, è stata la sindaca Raggi. All’epoca, da consigliera d’opposizione, si fece fotografare con le arance in mano, augurando spensieratamente la galera al primo cittadino. Oggi invece è la tessera numero tre – dopo Luigi Di Maio e Giuseppe Conte – della nouvelle vague garantista dei Cinque stelle. E per questo chiede scusa a Marino, giura che questa foto non la rifarebbe, anzi solidarizza con lui: «Probabilmente è stato molto avversato dai suoi che lo hanno sfiduciato dal notaio con un gesto vergognoso. Perché stava provando a cambiare le cose». Probabilmente.

La rabbia resta

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Ma un passato così non passa mai davvero. Lo si è sentito per esempio alla presentazione della candidatura di Imma Battaglia, lo scorso 20 maggio in un locale di Ostiense. Lei parla della sua esperienza da consigliera proprio negli anni di Marino e si rivolge alla prima fila, dove siedono alcuni suoi colleghi di allora: «Noi eravamo stati eletti, avevano scritto i nostri nomi, e quei maschi, quel potere ci ha dimesso, ha deciso di fare un’altra cosa».

Oppure basta chiedere a a Giovanni Caudo, oggi presidente del Municipio III, a proposito dell’endorsement che gli è arrivato da Marino: «Io non gli ho chiesto nulla ma mi ha fatto un gran piacere. E non perché sono nostalgico», giura, «non siamo “vedove di Marino”. Anzi chi lavora con me sa che dopo quella vicenda abbiamo sempre guardato avanti, in questi anni al municipio abbiamo fatto tante cose importanti». Ma quando il ragionamento va avanti affiora la sua versione su ieri, cioè su oggi: «In questi cinque anni di Raggi a Roma non c’è stata un’elaborazione politica. Il Pd lo nega?

E allora chiedo: come mai non c’è stato nessuno in grado di fare una proposta per il dopo Raggi? Noi abbiamo vinto nei municipi aprendo le braccia, allargando la coalizione al civismo. Del resto era quello che ci chiedeva l’allora segretario Zingaretti. Che però è saltato anche lui, e non è un caso. Come cinque anni fa, anche oggi il Pd si chiude a riccio. Gualtieri è estraneo all’idea di apertura della città. Sa che qui serve una radicalità integrale? Non sembra».

Quelli che il Golpe

Un’altra versione su quei ventotto mesi di sindacatura l’ha raccontata il regista Francesco Cordio nel documentario «Roma Golpe Capitale» del 2018. Presenta date e testimonianze messe in fila una dopo l’altra: la giornalista d’inchiesta Federica Angeli (oggi al fianco di Virginia Raggi), l’ex assessora al welfare e alle politiche sociali Francesca Danese, il giornalista e blogger Francesco Luna, l’ex magistrato Giancarlo Casello.

Ne esce il racconto di una doppia parabola: l’ascesa e la caduta di Marino, ma anche quella che parte dal Pd che elegge il suo sindaco e arriva allo stesso Pd che lo azzoppa, lo commissaria; e poi lo butta giù. Sono i mesi dell’inchiesta Mafia Capitale. Li ricostruisce Enzo Ciconte nel recente libro L’Assedio (Carocci editore): «Sul piano politico s’avvertono i primi smottamenti. Il Pd nazionale commissaria quello romano e il sindaco Marino, dopo il coinvolgimento di alcuni uomini della sua maggioranza, cerca di correre ai ripari e nomina assessore alla Legalità Alfonso Sabella, un magistrato che aveva operato in Sicilia, il quale racconterà la sua esperienza fatta a Ostia e le varie difficoltà incontrare a far rispettare la legalità».

Il rapporto fra il Pd e il suo sindaco era nato male e finisce peggio. Al Nazareno e a Palazzo Chigi c’è Matteo Renzi. Del sindaco non aveva convinto sin dall’inizio lo slogan della campagna elettorale, «È Roma, non è politica», con cui però viene blandito l’elettorato grillino. Ha problemi con i media, i grandi giornali non glielo perdonano. Al partito dicono che ha un’agenda buona solo per il centro storico, che non capisce i romani, non conosce le periferie e non conosce neanche Roma (romano non è, in effetti è genovese). Che non si fida di nessuno, che parla in inglese con il suo staff per non farsi capire dagli impiegati comunali, che lo ricambiano con freddezza. Il segretario dem Renzi all’inizio lo sostiene, poi cerca di governarlo, alla fine lo molla ed è ben felice di accollare la rogna capitale al commissario Orfini.

Marino – che con le indagini di Mafia Capitale non c’entra niente, viene coinvolto invece il suo assessore Daniele Ozzimo, poi condannato – è messo alla gogna e poi indagato per una storia di scontrini, poi per i conti di una Onlus da lui fondata. Finirà assolto, anni dopo.

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«La narrazione del complotto ci sta tutta», ammette Gianluca Peciola, che all’epoca era consigliere comunale di Sinistra ecologia e libertà, «però non dobbiamo dimenticare alcuni dettagli importanti: prima della caduta, Marino accetta di far fuori dalla giunta la sinistra, cioè noi, per far entrare assessori direttamente indicati da Renzi», si riferisce al senatore torinese Stefano Esposito che diventa assessore alla mobilità, in realtà viene dalla corrente di Orfini, e come abbiamo già visto anche a Sabella, che era stato consigliato al Pd da Giancarlo Caselli, «Insomma, Marino fu commissariato e fu oggetto di un attacco mediatico. Tutto vero. Però ha sempre detto di essere stato obbligato ad accettare di essere commissariato, invece poteva dire di no».

In quell’anno nel Pd romano succede un cataclisma. L’indagine coinvolge qualche dirigente e l’assessore, il partito romano è nel caos, Renzi – come abbiamo già visto – nomina commissario il presidente Matteo Orfini. Orfini conduce una severissima campagna di “pulizia” nel partito romano. Incarica un ex ministro, Fabrizio Barca, studioso della città, di fare una mappatura dei circoli: ne esce una fotografia impietosa.

La relazione viene presentata a giugno alla festa dell’Unità: 27 circoli sui 108 esistenti sono «dannosi»: «Il circolo è dannoso perché blocca il confronto sui contenuti, premia la fedeltà di filiera, emargina gli innovatori», spiega Barca alla presentazione del dossier. Molti circoli insorgono. Alla fine anche fra Orfini e Barca si scaverà una fredda distanza. Ma intanto ci sono conti da ripianare, vengono chiuse alcune sedi, nella furia moralizzatrice ci scappa qualche regolamento di conto politico, ne fanno le spese alcuni dirigenti forse non così «dannosi» ma sicuramente non renziani.

La Donna Olimpia

Il circolo di Donna Olimpia, XIIesimo municipio, dovrebbe essere accorpato a quella di via Vipera. Non ci stanno i militanti della storica ex sezione Pci che nel palmarès ha la medaglia di aver resistito agli assalti dei fascisti nel dopoguerra e poi dei neofascisti negli anni Settanta. Figuriamoci se non resistono ai propri dirigenti.

Oggi alle primarie di quel municipio corre per fare il presidente Marco Miccoli. Che era deputato negli anni di Marino ed è l’unico a schierarsi contro la sua defenestrazione. Non sarà ricandidato. Arriva il tempo delle nuove elezioni per il Campidoglio. «Oggi ricomincia la nostra rivincita» annuncia Orfini all’Unità (c’era ancora l’Unità). Il vincitore delle primarie è il radicale e (liberamente) renziano Roberto Giachetti. Ma la rivincita non arriva: Giachetti arriva al ballottaggio ma Raggi lo doppia e prende il 67 per cento, il Pd perde tutti i municipi tranne il centro storico e i Parioli. Miccoli ricorda: «L’avevamo detto: cacciare Marino non era una buona idea». Ma il Pd renziano fa spallucce. Miccoli oggi è commissario del Pd di Cosenza, è sempre stato un coalizionista e lavora all’accordo fra Pd e Cinque stelle per il comune calabrese. A Roma, nella corsa per il municipio, si schierano con lui i Giovani democratici, e comitati, associazioni e la sinistra del territorio. Miccoli sostiene Gualtieri alle primarie, ma all’epoca era l’arcinemico del commissario Orfini, giovane turco, della stessa corrente di Gualtieri. Lo sfidante di Miccoli è Elio Tommassetti, sostenuto da Claudio Mancini, uomo forte di Gualtieri, anche lui giovane turco.

Torbella combat

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Anche al Municipio VI la battaglia delle primarie ha qualcosa a che vedere con il fattaccio del 2015. In collegamento con Caudo, per la presidenza del municipio si presenta Alessandra Laterza. Quarantacinque anni, libraia con nome da editrice, da tre anni ha aperto l’ormai mitica Booklet Le Torri, a Tor Bella Monaca, a est della via Casilina. Un centro culturale in un mezzo al deserto, un posto di frontiera dove le mamme sono tranquille di mandare i ragazzini e si organizzano eventi culturali a getto continuo. Nei giorni scorsi Alessandra ha fatto «il botto» sui social perché ha annunciato che non vende il libro di Giorgia Meloni: «La mia libreria è un luogo di resistenza». Risultato: insulti, attacchi, minacce. Il 19 maggio, dopo la presentazione di un romanzo su questioni Lgbt, militanti della destra radicale imbrattano le serrande dei locali e i cartelli stradali tutto intorno. Alessandra è furibonda: «C’erano tre camionette della polizia, ma dal Pd non è arrivato neanche un WhatsApp di solidarietà».

Che c’entra Alessandra con Ignazio Marino? C’entra: nel 2015 lei è segretaria del circolo Borghesiana Finocchio, è renziana, «non ero una fan di Marino ma questa cosa che il Pd cacciava il suo sindaco non mi è andata giù», «al centro Renzi e Orfini festeggiavano, alla festa dell’Unità invece c’erano molti militanti furiosi». Opposte verità, di nuovo. Alessandra resiste nella sua trincea. Nel 2018 apre la libreria a Maurizio Martina che nel luglio convoca lì, fra gli scaffali, la prima riunione della sua segreteria nazionale. «Ci sono cascata di nuovo», dice lei citando Achille Lauro, un rapper cantautore e poeta che di periferie romane ha un certo know how, ma «ora basta, non ci casco più», conclude: non prenderà più la tessera. E per il 3 giugno ha organizzato la presentazione del libro di Ciconte. In quell’occasione Nello Trocchia, inviato di Domani ed esperto di mafie e criminalità intervisterà – indovinate chi? – l’ex sindaco Ignazio Marino.

La profezia di Marino

Il quale, c’è da scommetterci, dirà la sua, non solo sulle primarie. Che anticipa a Domani, rivendicando la sua storia, e partendo da dove il famoso fattaccio è cominciato: «Nel 2013 partecipai alle primarie per la selezione del candidato a sindaco di Roma», racconta, «Mi dimisi dalla carica di senatore prima delle elezioni per correre senza il “paracadute” da parlamentare che usano tutti coloro che lo hanno: primo e ultimo nella storia della Repubblica. Andarono a votare oltre centomila cittadini.

Si era mobilitata la città, a differenza di altre occasioni in cui i votanti erano stati poche migliaia trascinate dai partiti. Quel voto popolare mi premiò nettamente: staccai gli altri candidati superando il 55 per cento delle preferenze. Alle elezioni vinsi con il 64 per cento dei voti, oltre settecentomila persone». È il 9 giugno, lo sconfitto è il sindaco uscente Gianni Alemanno, la cui elezione, cinque anni prima, era stata salutata dai saluti romani sulla scalinata del Campidoglio.

Continua Marino: «Dal notaio per farmi decadere andarono invece 26 persone, consiglieri comunali, una ventina del Pd e gli altri dei partiti di destra. Quasi tutti quei consiglieri del Pd che tradirono il voto degli elettori vennero premiati con incarichi e ricandidature. Alcuni si apprestano a ricandidarsi oggi con il candidato del Pd», «Roma ha visto e non ha dimenticato. Ancora oggi, ogni mese», giura, «ricevo migliaia di messaggi di cittadini che affermano che non voteranno mai più Pd se quella ferita non verrà riparata. Ma non credo che sarà riparata, almeno nei prossimi anni». «Per farlo», è la conclusione, «gli attori di allora dovrebbero riconoscere di aver commesso un omicidio politico dettato da arroganza e sete di potere. Dovrebbero riconoscere che non volevano un sindaco che svolgesse il mandato facendo ciò che è giusto per i cittadini e non ciò che conviene ai partiti», «Sarebbe auspicabile ma penso che sia impossibile perché il Pd ha ancora oggi gli stessi attori. Nessuno nel Pd si è mai scusato delle aggressioni mediatiche né dell’essere andato sorridente e gioioso da un notaio per far decadere un sindaco eletto dal popolo, diffamandolo e gettandogli fango addosso. Ha chiesto scusa Virginia Raggi e le deve essere riconosciuto, un gesto non scontato e non atteso. Tutto potrà essere superato quando la sinistra ritroverà i propri valori e leader in grado di sostenerli», «Oggi per me tutto questo appartiene al passato ma l’ingiuria antidemocratica rimane nel cuore dei cittadini».

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