- Tanto rumore per nulla? Dopo la plebiscitaria riconferma della fiducia del Consiglio federale della Lega al segretario Matteo Salvini, i commentatori di centrodestra tendono ad accreditare l’ipotesi che le cose nella coalizione presto si riaggiusteranno.
- Ma il centrodestra ha almeno tre problemi: la divergenza delle linee strategiche proposte da Salvini e Meloni; l’incontrollabilità delle mosse della componente centrista dell’alleanza; le incognite legate alla possibile modifica del sistema elettorale.
- Con qualunque legge elettorale, i “cespugli” centristi farebbero pagare caro il proprio appoggio.
Tanto rumore per nulla? Dopo la plebiscitaria riconferma della fiducia del Consiglio federale della Lega al segretario Matteo Salvini, i commentatori di centrodestra tendono ad accreditare l’ipotesi che, malgrado i rudi scambi di opinioni ed umori dei giorni scorsi, le cose nella coalizione presto si riaggiusteranno.
I giornali di area riempiono pagine con i messaggi di elettori che vogliono un rapido ritorno ai tempi – poco più di una settimana fa – in cui i loro beniamini pranzavano insieme, si offrivano ai fotografi in pose amichevoli e promettevano convinto sostegno alla candidatura quirinalizia di Berlusconi.
Molti degli scriventi si dicono certi che, alla base, il desiderio di unità fra simpatizzanti dei vari partiti coalizzati sia un dato accertato.
La rosa dei candidati a ricostruire anche al vertice l’aggregato (che, visto il verbo utilizzato, anche a loro sembra essere andato in pezzi) si infittisce: dopo Giorgia Meloni, si offre all’impresa Salvini. È dunque in vista, dopo il momento delle recriminazioni, l’annunciata ricomposizione?
Le rotture profonde
A giudicare da alcune dichiarazioni delle ultime ore, l’obiettivo parrebbe lontano. Se la presidente di Fratelli d’Italia insiste nel lamentare la scorrettezza dei comportamenti del leader leghista, di cui giudica «folle» la tattica applicata nella vicenda del Colle, e sostiene che la sua formazione, almeno per ora, non si riconosce più nell’alleanza di cui faceva parte, i capigruppo di Camera e Senato del Carroccio ricambiano alzando la posta. E dipingono i concorrenti di FdI come «estremisti legati a ideologie sconfitte dalla Storia che antepongono vittorie di Pirro al bene comune solamente per sollevare ulteriori tensioni».
Il tutto mentre Berlusconi, pur continuando a rivendicare la guida della coalizione, fa trapelare, con tanto di virgolettato nell’editoriale del suo giornalista di fiducia, una convinzione tutt’altro che conciliante verso chi sino a ieri gli era sodale: «Per me ora esiste il centro: liberale, garantista, cattolico, europeista; non c'è più il trattino che lo lega alla destra». E ce n’è anche per Giovanni Toti e i suoi: «Forza Italia è il centro, non quei cespugli senza leader che ambiscono ad occupare quello spazio».
La burrasca, quindi, non si è acquietata. Ma il problema vero è che cosa accadrà quando i toni si saranno smorzati e i “ricostruttori” cercheranno la sintesi fra le rispettive posizioni. Ed è proprio su questo versante che le prospettive future appaiono più problematiche.
Per almeno tre ragioni – a tacere di una quarta che non può trovare rimedio, cioè il contrasto delle ambizioni di leadership tra i personaggi in gioco –: la divergenza delle linee strategiche proposte da Salvini e Meloni per uscire dall’attuale fase critica; l’incontrollabilità delle mosse della componente centrista dell’alleanza; le incognite legate alla possibile modifica del sistema elettorale. Su ciascuno di questi fattori è il caso di avanzare qualche riflessione.
Verso il partito Repubblicano?
Sul primo punto, le distanze appaiono nette. Se Fratelli d’Italia punta sempre più a caratterizzarsi come l’unico contenitore delle istanze collegate ad una visione del mondo di destra, e per questo accentua i richiami al conservatorismo, in contrapposizione frontale alle posizioni “politicamente corrette” del fronte progressista (emarginando, pur senza quegli strappi che furono fatali a Gianfranco Fini ai tempi di Alleanza nazionale, i richiami al “né destra né sinistra” da sempre serpeggianti nel microcosmo neofascista e ancora cari ai suoi militanti più giovani), la Lega mira ad accreditarsi come il polo d’attrazione di un elettorato poco, o per niente, attratto da temi ideologici e preoccupato esclusivamente della risoluzione dei problemi pratici della quotidianità.
È a questo elettorato qualunquista, individualista, pragmatico, che nel binomio ordine-sicurezza (economica, ma anche fisica e culturale) riassume le sue preoccupazioni più vive, che si rivolge Salvini quando evoca una federazione «sul modello del Partito Repubblicano americano».
L’esempio è forzato, perché il Grand Old Party non raccoglie partiti diversi ma club, gruppi di opinione, notabili locali, ed elegge deputati e senatori che rappresentano prima di tutto se stessi e gli interessi di cui sono espressione, al di fuori di ogni disciplina di partito, ma rende l’idea.
Fa capire quanto flessibili e reversibili siano, tuttora, le direttrici su cui il “Capitano” si muove: l’altroieri secessionista anti-meridionale, ieri nazionalista, populista e disposto a dialogare con Casa Pound e con la Russia di Putin, oggi liberale e atlantista, domani chissà.
Il problema dei centristi
La questione dei centristi (Noi con l’Italia, Udc, Coraggio Italia ecc.) è ancor più rilevante nell’ottica dell’agognata ricostruzione, ed è da sempre la più dolorosa spina nel fianco della coalizione, a cui ha causato di continuo scissioni organizzate, defezioni individuali, ricatti, rovesci e mal di pancia.
Sotto qualunque sistema elettorale, la pattuglia degli esponenti ex, neo o post democristiani o genericamente moderati ha pesato in misura sproporzionata alla propria scarsa consistenza elettorale sulle ambizioni e sulle possibilità di manovra del centrodestra, perché il suo pacchetto di voti è sempre stato considerato decisivo per sconfiggere gli avversari.
Quanto più questi ultimi hanno stemperato la loro caratterizzazione ideologica e programmatica, abbandonando gran parte delle tesi classiche della sinistra pre-1989 e incorporando nel loro perimetro la tradizione del popolarismo cristiano ed alcune frange di quello che un tempo veniva definito lib-lab, il valore sul mercato elettorale e parlamentare dei refrattari alle scelte di campo univoche tra destra e sinistra è andato progressivamente crescendo.
Non tanto da poter assicurare loro un ruolo indipendente, come il fallimento dei tentativi di Lamberto Dini, Mario Monti e altri emuli ha dimostrato, ma abbastanza da farne una pietra d’inciampo inaggirabile per tutte le velleità di rafforzare il bipolarismo italiano, o addirittura trasformarlo in bipartitismo.
Questa intoccabilità ha consentito alla componente centrista di ottenere regolarmente, al momento di decidere le candidature comuni dei vari cartelli elettorali di centrodestra, molti più posti di quelli che avrebbero potuto assicurarsi presentandosi autonomamente.
Il risultato è stata una presenza in parlamento che si è, prima o poi, tradotta nella frammentazione dell’alleanza e nella costituzione di una congerie di gruppi a geometria e strategia variabile, in grado di condizionare o vanificare le scelte dei partner maggiori ogniqualvolta assumevano posizioni da loro non condivise.
Un costante potere di ricatto fondato sulla certezza che, qualora lo scontro con gli alleati avesse raggiunto punti di non ritorno, il centrosinistra li avrebbe accolti a braccia aperte nelle sue fila. Inaffidabili ma indispensabili: è questa la situazione in cui ancora si trovano, godendone la rendita, quei «cespugli senza leader» che oggi Berlusconi depreca ma che tanto comodo gli hanno fatto nella trentennale competizione con gli alleati-concorrenti situati alla sua destra.
Non basta la legge elettorale
C’è chi pensa, e qui veniamo al terzo fattore di debolezza delle ipotesi ricostruttrici, che la spada di Damocle del condizionamento di questi specialisti del cambio di casacca parlamentare verrebbe resa inoffensiva da un cambiamento di sistema elettorale: così la pensa soprattutto chi punta ad una legge integralmente maggioritaria. Sono illusioni.
Sia nell’ipotesi di un maggioritario ad un turno – dove la conquista di un voto in più degli avversari è indispensabile all’elezione – sia in quella di un doppio turno in cui, ammesso che i piccoli partiti accettassero di essere costretti a presentare propri candidati in concorrenza con quelli degli alleati maggiori, desistenze e riporti di voti risulterebbero cruciali nei ballottaggio, i “cespugli” farebbero pagare caro il proprio appoggio ed otterrebbero un numero di collegi sicuri tale da perpetuare le loro capacità di condizionamento una volta conquistato lo scranno alla Camera o al Senato.
Sarebbe semmai più facile costringerli a misurare il loro peso effettivo in un proporzionale con soglia di sbarramento; ma se quest’ultima dovesse essere elevata, si può essere certi che nessuna proposta di modifica della legge attuale giungerebbe all’approvazione nell’anno scarso di vita di cui dispone l’attuale legislatura.
Potrebbe allora cambiare lo scenario la soluzione che sta a cuore a Fratelli d’Italia, vale a dire la reintroduzione di un cospicuo premio di maggioranza assegnato al vincente? Certamente no se lo si attribuisse alla coalizione, perché le considerazioni fatte sull’indispensabilità del valore aggiunto dei “piccoli” si riproporrebbero tali e quali.
Forse sì se il premio spettasse al partito più votato; ma, al di là della plausibilità di un meccanismo di inaudita sproporzionalità e sperequazione, quale alleato o avversario accetterebbe il rischio di mettersi, con una simile modifica, un cappio al collo, votandosi ad una sicura e rigida subordinazione?
Da qualunque parte la si rigiri, dunque, la questione della ricostruzione del centrodestra appare più insolubile che difficilmente solubile. E rischia di risolversi nella rassegnazione al mantenimento di uno status quo che né la Lega né Fratelli d’Italia, e in fondo neppure Forza Italia, al di là delle prevedibili e scontate affermazioni di facciata, potrebbero giudicare soddisfacente.
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