La dicotomia che gli anziani esprimevano nel nome resta un tratto distintivo: da una parte la costa coi trabucchi e le località balneari, dall’altra l’entroterra con le nevi del Gran Sasso e della Maiella. La crisi dell’industria della neve, la lenta rinascita di L’Aquila dopo il terremoto, l’emergenza nei vitigni: viaggio nella regione al voto
«Più in là che Abruzzi» diceva Calandrino nel Decamerone di Boccaccio, per intendere un luogo lontano e appartato, ma anche favoloso nel suo essere nascosto. Del resto, ancora oggi rimane un territorio impervio, difficile da raggiungere con le vie di collegamento che a fatica valicano gli Appennini e funzionano solo un poco meglio lungo la dorsale adriatica.
Il nome – Abruzzo – nei ricordi degli anziani è ancora al plurale come per Boccaccio, in uno strascico di divisioni campanilistiche che permangono ancora oggi e corrono lungo le rive del fiume Pescara, che divide l’Abruzzo Ulteriore a nord e l’Abruzzo Citeriore a sud. La dicotomia è un tratto distintivo: da una parte la costa coi trabucchi e le località balneari, dall’altra l’entroterra con le nevi del Gran Sasso e della Maiella; l’agricoltura diffusa con le viti di Montepulciano contro l’appellativo di regione verde d’Europa con più del 30 per cento della superficie protetta da leggi ambientali; il campanilismo tra Pescara e L’Aquila, che dopo lo scontro per il ruolo di capoluogo si divisero le mansioni: consiglio regionale e appellativo formale all’Aquila, testa amministrativa con la sede della giunta regionale alla più ricca Pescara.
Territorio sospeso tra il centro a cui apparterrebbe geograficamente e il Meridione cui lo lega essere stato la punta nord del borbonico regno di Napoli, l’Abruzzo è territorio politicamente capriccioso. Anche negli anni della prima repubblica col dominio della Democrazia Cristiana – qui il capobastone era Remo Gasperi – nessun presidente della Regione è mai riuscito ad essere confermato per più di un mandato consecutivo, in una condanna all’alternanza se non di colore politico almeno di facce.
Proprio questa maledizione è stata ricordata, forse per esorcizzarla, dalla premier Giorgia Meloni sul palco di Pescara, alla chiusura della campagna elettorale del governatore uscente di Fratelli d’Italia, Marco Marsilio, che sta tentando l’impresa che non riuscì allo scudo crociato.
Anche in questa contesa politica la dicotomia è evidente. Da un lato Marsilio detto «il Lungo» – sia per l’altezza che per la verbosità dei suoi interventi oratori – cresciuto a Roma nella sezione del Movimento sociale italiano della Garbatella ma con genitori e ascendenti abruzzesi che però non sono bastati per cancellargli di dosso lo stigma del forestiero. Dall’altra Luciano D’Amico, chietese doc ed ex rettore dell’Università di Teramo, capace di parlare ai contadini e agli economisti grazie alla gestione della Tua, l’azienda dei trasporti abruzzesi che sotto la sua guida ha risanato i conti.
L’Abruzzo bianco
Se di Marsilio si conosce il pedigree politico e la linea retta che lo collega a Meloni, meno si sa del percorso di D’Amico, se non che è riuscito nell’impresa di tenere insieme la sinistra, il centro e anche il Movimento 5 Stelle. Politicamente, però, il suo battesimo come candidato è avvenuto con la convergenza di due rette che gli abruzzesi avevano sempre considerato parallele e che mai avrebbero potuto incontrarsi. D’Amico, infatti, è diventato il crocevia delle due maggiori personalità della regione degli ultimi anni, tra loro da sempre in rotta di collisione per distanza sia culturale sia antropologica. Su di lui hanno puntato e per lui hanno lavorato in campagna elettorale – pur separatamente – Luciano D’Alfonso e Giovanni Legnini. Il primo, allievo del democristiano Gaspari, indagato e poi assolto mentre era sindaco di Pescara; il secondo cresciuto nel partito comunista e fiero del suo passato da vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Entrambi, oggi, parlamentari del Pd.
In questa tornata elettorale la speranza del centrosinistra è quella di scalfire il muro dell’astensionismo che nel 2019 fece andare a votare appena il 50 per cento degli aventi diritto, 190 mila persone. Proprio nella fetta di astensionismo si nascondono i voti necessari per evitare che FdI rompa la maledizione dell’alternanza. Anche perché, è il ragionamento che scalda l’entusiasmo del Pd locale, l’Abruzzo è terra del centrismo scudocrociato, con l’eccezione di un’anima nera nel missino Raffaele Delfino, che pure militava nella corrente moderata di Democrazia nazionale.
La saggezza Dc, tuttavia, non è estranea nemmeno a Marsilio, che ha costruito le sue liste d’appoggio con candidati dal forte impatto elettorale, tra amministratori uscenti e imprenditori. Del resto, il governatore e il ministro dei Trasporti hanno sapientemente teso la mano al gruppo dei fratelli Toto, il polo di costruzioni tornato a essere concessionario delle autostrade A24 e A25, dopo la revoca avvenuta durante il governo Draghi.
La crisi morde
Eppure, chi vive tra la cima innevata della Maiella e l’Adriatico guarda la politica con placido distacco. I problemi del territorio sono ancora tutti lì e negli anni le tante dicotomie che hanno fatto la ricchezza dell’Abruzzo si sono progressivamente allargate.
La crisi dopo il terremoto che ha distrutto L’Aquila del 2009 è ormai superata: la città, che Silvio Berlusconi volle teatro ancora in macerie del G8, è stata quasi interamente ricostruita e le molte famiglie che si erano trasferite sulla costa sono ormai ritornate.
La sanità – con le sue lunghe liste d’attesa, la dismissione di poli ospedalieri e il fuggi fuggi di primari – è un problema più nuovo e contingente e, secondo i sostenitori di D’Amico, frutto della malagestione dei fondi da parte del governatore uscente.
La questione più atavica, invece, riguarda la vocazione agricola della regione: tanto radicata quanto fragile, in anni di cambiamento climatico. «La peronospora ci ha tolto quasi il 70 per cento del raccolto», è il racconto di Giovanni, viticoltore della zona del teramano dove si coltivano le bacche nere che producono il Montepulciano d’Abruzzo.
La peronospora è una malattia delle viti dovuta all’eccesso di pioggia e si è abbattuta sulle coltivazioni in regione, generando un’emergenza di proporzioni mai così avvertite. Se fino pochi anni fa, infatti, le uve venivano vendute – «svendute» dice lui – alle grandi cantine del nord, ora i vini abruzzesi come il Montepulciano e il Trebbiano hanno un mercato autonomo e sempre più redditizio, che ha riportato alla terra molte famiglie con piccole aziende agricole.
Marsilio è corso ai ripari in gennaio, ottenendo dal ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida la firma di un decreto per stato di calamità naturale con interventi compensativi per le aziende colpite dalla peronospora. «Ma il decreto che dispone risarcimenti economici è senza copertura finanziaria, rimanda ad atti successivi da emanare nel 2024, per poi prendersi quattro anni di tempo per l’erogazione», ha denunciato Camillo D’Alessandro, ex parlamentare e imprenditore vinicolo.
Dalle pianure coltivate alle montagne, il cambiamento climatico ha colpito anche il settore sciistico: l’inverno è stato avaro di neve e al mese scorso solo il 20 per cento delle piste ha potuto aprire, da Roccaraso a Campo Imperatore a Ovindoli. «La situazione che si ripete ormai da tempo, con innevamento sempre più scarso, tanto che già lo scorso anno sono stati previsti dal governo 200 milioni di euro pubblici per i cosiddetti ristori agli operatori del settore», hanno spiegato Stazione ornitologica abruzzese onlus e il Forum H20, chiedendo una riflessione sull’impatto ambientale degli interventi in alta quota.
Da vent’anni l’Abruzzo discute del turismo invernale e della necessità di riconvertire le stazioni a quote più basse dell’Appennino, senza però che un piano complessivo sia stato immaginato. Negli ultimi anni, del resto, anche gli insediamenti produttivi si sono lentamente ridimensionati e un esempio è la progressiva riduzione della produzione nello stabilimento Sevel della Fiat – oggi Stellantis – situato nel mezzo della Val di Sangro, aperto nel 1981 per produrre veicoli commerciali leggeri e noto come la fabbrica di furgoni più grande d’Europa.
Forse per la prima volta dal terremoto del 2009, tuttavia, gli occhi nazionali sono tornati a interessarsi alla regione: complice la sconfitta del centrodestra in Sardegna, i commentatori politici aspettano di capire se si confermerà la tendenza per trasformare l’Abruzzo in un nuovo caso di scuola. Dice un proverbio locale che «all’ùteme s’arecònde le pècure», all’ultimo si ricontano le pecore: i risultati di quest’attenzione non richiesta, nella pragmaticità locale, si valuterà solo alla fine.
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