- L’anziano capo dei comunisti milanesi: «La ricerca del cambiamento va fatta nelle migliori tradizioni europee». Oggi la presentazione della ristampa de L’Oro di Mosca: «Non si paragoni il Pci ai soldi di Putin alla Lega».
- «Non credo che Letizia Moratti sia la soluzione giusta per le forze democratiche e di sinistra lombarde. Il Pd non sembra in grado di battere la Lega. Ma in politica bisogna avere un po’ più di fiducia nell’avvenire».
- «In Italia ormai c’è al potere la destra estrema. Ma è colpa anche della legge elettorale: sa dove governa una forza politica senza raggiungere il 50 per cento? Nella Russia di Putin».
Gianni Cervetti, a differenza di altri riformisti lombardi, non crede che il Pd debba votare la candidata alla regione Letizia Moratti, ex ministra del governo di Silvio Berlusconi ed ex numero due del leghista Attilio Fontana. Neanche se la vittoria della signora significasse togliere alla Lega il dominio ininterrotto sulla regione.
Il fatto speciale però è che Cervetti è il riformismo. Nato a Milano nel settembre del 1933, quindi novant’anni il prossimo anno, Giovanni detto Gianni è fra gli ultimi - bisognerebbe dire «ultimissimi» se fosse italiano – grandi vecchi della corrente riformista del Pci, «la destra comunista» dicevano gli ingraiani con una sfumatura denigratoria, e con lo stesso tono «i miglioristi». Una corrente che ha avuto nel presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano il principale esponente, e in Emanuele Macaluso l’anima più contemporanea, anche se se n’è andato quasi centenne, nel gennaio del 2021. A Milano c’era Cervetti.
I soldi da Mosca
Prima di parlare con lui del futuro della Lombardia e del Pd, cosa che Cervetti fa con la sua leggendaria compostezza, affrontiamo il tema di oggi. Oggi infatti a Milano sarà presentata la ristampa, a distanza di trent’anni esatti, de L’oro di Mosca (Baldini e Castoldi), libro indispensabile su una storia cruciale, di cui l’autore è quasi l’unico testimone diretto, citata da molti a piffero e senza la necessaria conoscenza. È la storia della rottura dei rapporti finanziari del Pci con il Pcus, il Partito comunista dell’Unione sovietica. A Cervetti il segretario Enrico Berlinguer affidò il delicatissimo dossier di sganciarsi dall’orbita sovietica. E Cervetti ce la restituisce dentro il contesto di quegli anni, la fine dei Settanta. «I protagonisti più illuminati della politica italiana pensavano e agivano in un orizzonte più ampio di quello nazionale», scrive Francesco Giasi nella nuova prefazione, «La consapevolezza intorno all’interdipendenza, al nesso nazionale-internazionale caratterizzava le loro azioni».
Un contributo ineludibile su questa vicenda, spesso usata polemicamente dalla destra contro la sinistra. Ma Cervetti non ha alcun timore che possa essere agitata strumentalmente dai leghisti, che hanno stretto rapporti politici e anche di sostegno materiale con Russia Unita, il partito di Vladimir Putin. Insomma quando dicono “così fan tutti”, citando il Pci, falsificano la storia: «Io racconto di come il Pci chiuse il finanziamento estero», spiega lui, «Se così facessero tutti, tutti non dovrebbero prendere quattrini da capi di stato o da partiti di altri paesi», e soprattutto «la storia di quel Pci non è paragonabile. È una storia di chiusura di quei finanziamenti, concordata fra Berlinguer e me. Ma all’epoca quasi tutti gli altri partiti avevano altre “fonti”». Parla della Dc e dei soldi americani? «Parlo di quasi tutti. E forse si trattava di fonti più massicce di quanto non ricevesse il Pci dalla fonte russa».
Spaccare la Dc
Torniamo ora al futuro della Lombardia. Con Cervetti eravamo pronti a affrontare una citazione del milazzismo: Sicilia, 1958, per spaccare la Dc Macaluso con il placet di Togliatti schiera il Pci alla regione con Silvio Milazzo, democristiano dissidente, che in effetti vince; il Pci ne sostiene la giunta insieme al Movimento sociale.
E invece Cervetti frena due volte: primo, schermendosi; secondo, lasciando capire che la suggestione non c’entra nulla. E avvertendo che sarebbe meglio non votare Moratti. «Io seguo la questione come un cittadino interessato alla politica, ma non credo che Moratti sia la soluzione giusta per le forze democratiche e di sinistra milanesi e lombarde», spiega. Di fronte a candidati in campo per il Pd, Pierfrancesco Maran e Pierfrancesco Majorino, lui declina la scelta: «non farò nomi», certo «sembra che il Pd non sia in grado di battere la Lega. Ma in politica non bisogna guardare alla situazione staticamente. E non è facile, bisogna però avere un po’ più di fiducia in un possibile avvenire». Ecco, il problema del Pd lombardo è un po’ il problema del Pd nazionale, un eterno presente che non pensa, non costruisce il futuro. E non ha fiducia.
Cervetti – che ha la tessera deal Pd perché «qui dove sono iscritto ci sono persone che si impegnano con confronti serrati per la loro comunità. Ma la prego di non riferire queste parole aggiungendo retorica», puntualizza – lo dice con altre parole, poche come suo stile : «Le faccio l’esempio di Milano: qui ci sono senz’altro dei giovani che hanno cominciato già a lavorare bene nel partito, questi giovani devono non solo continuare sulla strada intrapresa ma devono rafforzarsi. Soprattutto non sono azioni che devono fare pensando di trarre le conseguenze solo per l’oggi ma devono guardare non all’anno del mai, ma per il giorno del poi». Quindi il Pd ha un futuro, «ne sono sicuro, purché si impegnino».
Riformisti nel Pd
Cervetti è dunque la matrice vivente del «riformismo» di sinistra. Riformismo e non «migliorismo» perché quest’altro termine, «che io non ho mai accettato, ha un’origine precisa, veniva usato all’inizio del secolo scorso negli Stati uniti per indicare una corrente di coloro che volevano “migliorare” lo stato di cose presente. Per noi nel Pci non si trattava di “migliorarla” ma di cambiare le cose che non funzionavano con metodo democratico».
Gli chiediamo se c’è una continuità con la corrente che usa lo stesso nome nel Pd, Base riformista, guidata dall’ex ministro Lorenzo Guerini, che per giunta è un ex Dc. Todos riformisti insomma, i riformisti del Pci e quelli del Pd? «Lo so che riformismo è termine ormai abusato. Non dovrebbe essere così ma non c’è da fare l’analisi del sangue per chiamarsi riformista, bisogna guardare all’azione che si compie ogni giorno», dunque eredi di una tradizione?, «Bisogna vedere a quale tradizione loro si riferiscono. È questa, se mi posso permettere, la condizione e la ricerca. La ricerca nella tradizione delle forze migliori dell’Europa e dell’Italia».
Solo che nel Pd ormai c’è chi, come Andrea Orlando, chiede una analisi critica del capitalismo: il partito con all’interno linee diverse finirà per rompersi? «La critica al sistema capitalistico si può fare, ogni sistema può essere criticato. Bisogna vedere dove si intende giungere con questa critica, e soprattutto con un’azione più complessiva» insomma «si tratta di essere chiari nel rivendicare una coerenza nell’agire, non solo nello sbandierare principi». In ogni caso auspica che il Pd non si divida: «Non è il caso di indebolirsi anzi è il caso di darsi il più possibile unitariamente una rinfrescata, detto tra virgolette».
La destra al governo
Cervetti il prossimo anno farà novant’anni. Sempre attento a non consentirsi neanche un filo di retorica, ammette che la destra radicale al governo gli fa «una brutta impressione. Anche perché non si tratta “solo” di una destra radicale, ma di un coacervo, basta pensare ad alcuni nomi che hanno come funzioni di primo piano i quali vengono da tradizioni di destra estrema. Non sono tutti così, ma non sono pochi».
E per il Pd e quelle che lui chiama «le forze democratiche del paese» risalire la china non sarà facile. Anche perché anche l’alleanza con i Cinque stelle, che pure ormai sembra rotta per sempre, «dovrebbe essere tattica, in questo caso nulla quaestio».
Il tema è però la legge elettorale. «Enrico Berlinguer diceva che per governare bisognava passare oltre il 50 per cento, almeno al 51», dice Cervetti riferendosi al terzo saggio che, nell’autunno 1973, il segretario Pci dedicò su Rinascita a proposito dell’Italia dopo i fatti del Cile, e cioè del colpo di stato che aveva abbattuto un governo socialista democraticamente eletto; per Berlinguer, che lì teorizza il compromesso storico, è «illusorio» ritenere che, col 51 per cento dei voti, si possa garantire «la sopravvivenza e l’opera di un governo che» sia, «l’espressione di tale 51 per cento»
Conclude Cervetti: «Lei ha presente dove una forza politica senza raggiungere il 50 per cento governa? Nella Russia di Putin. Non nelle ultime elezioni in cui il consenso è salito sulla base di quello che un altro russo, poi diventato obiettivo di Putin, chiamava "sciovinismo grande-russo". Ma nelle elezioni precedenti».
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