Anche le parole possono uccidere. Hanno fatto male a me,overe. Diffondere odio e falsità può ricadere nel’alveo del diritto di critica
alla mia famiglia e alla memoria di mio fratello Stefano. Fermare l’onda degli odiatori di professione è un d- Sono spesso vittima per le battaglie che conduco di attacchi violenti sui social. «Mitomane, ti sei arricchita con la morte di tuo fratello Stefano», è l’ultima offensiva che mi hanno rivolto gli odiatori di professione.
- Ho denunciato ma per la procura non c’è reato. È diritto di critica, ha scritto il magistrato
- Non è una questione personale, se tolleriamo il linguaggio rabbioso, violento, impregnato di odio mettiamo a rischio la nostra stessa società. Si diffonde una cultura dell’aggressione personale che può sconfinare in azioni illecite
Ci sono momenti della tua vita caratterizzati da una svolta che ne stravolge il corso per sempre. Spesso accade e non te ne rendi conto, anche se l’evento che ha prodotto il cambiamento è dato da un fatto doloroso slegato dalla tua volontà. La sofferenza che improvvisamente devasta il tuo cuore riempie di adrenalina il cervello. Tu non sarai mai più quella di prima. In quei momenti non ne sei consapevole ma sarai un’altra persona che finirà addirittura per sorprenderti. Nel bene e nel male. Il 15 ottobre 2009 moriva, nelle mani dello stato, Stefano Cucchi. Mio fratello. A ucciderlo fu un terribile pestaggio, il pregiudizio e l’indifferenza di coloro che avrebbero dovuto curarlo. Da allora ho iniziato una lunga, feroce ed estenuante battaglia giudiziaria, unita a una pubblica denuncia su quanto era accaduto dal momento del suo arresto a quello della sua morte, sopraggiunta inesorabile dopo sei giorni di terribili sofferenze. Mi sono ribellata alle menzogne, alle verità di comodo, ai depistaggi. Ho iniziato una maratona giudiziaria che conta otre 150 udienze di sole corti d’Assise e che dura da ben undici anni. Ho aperto una pagina Facebook che è arrivata ad avere fino a dieci milioni di contatti. Ho reso innumerevoli interviste, partecipato a tante trasmissioni televisive, incontrato alcune tra le più alte cariche dello stato. Scritto due libri.
Una questione privata?
Così sono diventata Ilaria Cucchi. La sorella che tutti conoscono. Quella che io non conoscevo, che non avrei mai immaginato di poter essere. Qualcuno ama definirmi un «personaggio pubblico». Non mi ci sento. Non mi piace. Che cosa significa poi? La definizione da vocabolario di lingua italiana è semplice e ritengo non mi appartenga proprio: «Personaggio che, per il ruolo che riveste o l’attività che svolge (per esempio un politico, un attore, uno sportivo famoso) richiama l’attenzione dell’opinione pubblica anche sulle vicende private della sua vita». Sono forse un politico, un’attrice o una sportiva famosa? È evidente: no. Anche senza esserlo ho per caso richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica anche sulle vicende private della mia vita? L’uccisione a botte di mio fratello può essere considerata solo e soltanto una mia questione privata? Anche qui la risposta è la stessa: no. Senza accorgermene sono diventata famosa. Questo sì. La gente mi riconosce, mi ferma per strada. Mi abbraccia. Si commuove persino. «Tu sei Ilaria?», mi dicono spesso con emozione. Non sono ipocrita. Tutto questo mi fa piacere, mi scalda il cuore. Mi aiuta ad andare avanti. Mi fa sentire un po’ la sorella di tutti. Quelli che quotidianamente sono costretti a fare i conti con la frustrazione di un rapporto con le istituzioni spesso insoddisfacente e altrettanto spesso stritolato dalla burocrazia più cinica e cieca. Quella sorda ai bisogni della gente comune.
Il rovescio della medaglia
È bello tutto questo ma esiste anche il rovescio della medaglia. I successi giudiziari di questi ultimi tempi, la scoperta della verità, dopo anni e anni di sconfitte e frustrazioni, hanno scatenato soprattutto sui social, l’odio dei cosiddetti hater, gli odiatori di professione. Insulti seriali e minacce di morte, soprattutto nei miei confronti. Ho dovuto fare i conti con la barbarie dei cosiddetti leoni da tastiera. Fanno male, fanno paura. Mi sento vulnerabile e impotente. Incapace di proteggere da tutto questo i miei genitori e i miei figli. Ho scoperto la loro sempre più diffusa impunità. Forti dell’aggressione verbale che noi Cucchi siamo costretti a subire anche da noti politici o esponenti sindacali delle forze dell’ordine, i leoni da tastiera non conoscono limiti anche perché spesso nemmeno disturbati dalla giustizia che ne tollera i comportamenti omettendo di perseguirli concretamente. Si crea così una deriva culturale molto pericolosa. Si diffonde una cultura dell’aggressione personale che può sconfinare in azioni illecite. Recentemente un medico ha postato un commento sul sito di un sindacato di polizia, il Sap. Ha commentato una mia intervista dove denunciavo lo stato di profondo disagio in cui mi trovavo proprio per quanto costretta a subire per tutto questo.
La violenza della parola
Il testo recitava così: «Questa è una mitomane pronta a tutto...la morte di suo fratello si è rivelata essere una gallina delle uova d’oro per lei e per la sua famiglia!!!». Tre punti esclamativi. Quanta rabbia cela questa bulimia di punteggiatura? Quanta cattiveria. Anche le parole possono ferire. Anche le parole possono uccidere. Io sono una normale cittadina che sicuramente ha una visuale limitata: quella dell’effetto che un certo tipo di lessico ha avuto sulla estrema sofferenza dei miei genitori per tutto quello che hanno dovuto subire nella loro difficile vita dal 2009 a oggi. «Così come riportato in sede di denuncia querela (quella che ho naturalmente fatto) non integra la fattispecie della diffamazione in quanto scriminato dall’esercizio del diritto di critica nei confronti dell’aspetto pubblico della vita della persona offesa». Questa la risposta del procuratore della Repubblica che aveva in carico la denuncia contro il medico secondo cui mi sono arricchita con la morte di mio fratello. Non sono un politico famoso. Non sono una sportiva famosa. Non sono un’attrice famosa. A me è solo stato ammazzato un fratello. Stefano. Non mi sono arresa agli insabbiamenti. Non mi sono arresa alla prima diagnosi di morte naturale. Queste sono le mie colpe. E in ogni caso se la giustizia ci fosse stata mio fratello non sarebbe neppure morto. Non in quelle circostanze. Ma quel che mi preme osservare è che se tolleriamo o, peggio, legittimiamo il lessico degli hater non possiamo che aspettarci, poi, una deriva che finisca per portarci il peggio. Per questo non è una questione personale, ma riguarda tutti.
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