- La chiesa richiama la responsabilità del governo a occuparsi in primo luogo della povertà e del disagio sociale, accresciuti dopo gli anni della pandemia da coronavirus e ulteriormente aggravati dalla crisi energetica in corso.
- Secondo l’Istat il contributo dato dal reddito di cittadinanza a chi versava in condizioni di indigenza è stato importante, mentre il criterio dell’“occupabiltà” per la sua riduzione rischia di essere fuorviante e di colpire chi non è in grado di rientrare in un circuito lavorativo
- La Cei propone un confronto al governo insieme ad altri attori sociali, per riformare il Rdc, che va ampliato verso i destinatari più bisognosi e va affiancato da altri strumenti di inclusione e sostegno sociale formativi e professionali.
La chiesa italiana torna a difendere con forza il reddito di cittadinanza e chiede al governo guidato da Giorgia Meloni di aprire un confronto con tutti gli attori sociali impegnati nel contrasto alla povertà per migliorarne l’applicazione, mentre va scongiurato il rischio di una sua cancellazione o di un suo ridimensionamento in un momento in cui l’esclusione sociale è un dato drammatico che tocca milioni di persone. È questa la presa di posizione diffusa attraverso un articolato comunicato diffuso il 7 dicembre dalla Caritas italiana e dall’Ufficio nazionale per i problemi sociali e lavoro della Cei.
Prima i poveri
Già lo scorso ottobre, in occasione della presentazione del Rapporto sulla povertà 2022 di Caritas italiana, il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, aveva invitato l’esecutivo ad agire con lungimiranza e prudenza rispetto al Rdc, misura che andava migliorata nel senso di una rimodulazione e di un allargamento della platea dei destinatari, coinvolgendo meglio chi versava effettivamente in condizioni di povertà assoluta, incrementando gli strumenti di inclusione sociale, ma non semplicemente ridotta o tagliata per ragioni ideologiche o di bilancio.
Le parole che arrivano adesso dagli organismi sociali della chiesa italiana prendono le mosse da un appello di carattere generale rivolto a chi ha maggiori responsabilità nella gestione della cosa pubblica: «Sostenere le famiglie e le persone in difficoltà economica deve essere una indiscutibile priorità per chiunque abbia a cuore il benessere del nostro paese, soprattutto in un momento di crisi energetica e di galoppante inflazione».
L’analisi dell’Istat
Per tale ragione, Caritas e Cei, «in occasione della chiusura dei termini per la presentazione degli emendamenti alla legge di bilancio 2023, ribadiscono che, in quanto diritto di cittadinanza, occorre garantire alle persone in povertà una misura di sostegno, come accade in tutti i Paesi europei, nel rispetto della dignità di ciascuno».
Si ricorda quindi come, in base ai dati diffusi dall’Istat, «tale misura ha rappresentato per molte famiglie un aiuto concreto e in alcuni casi fondamentale, soprattutto nei mesi della pandemia, proteggendo dalla caduta in povertà un milione di persone (circa 450.000 nuclei). I nostri monitoraggi confermano la validità dello strumento che ha supportato numerose persone che si rivolgono ai servizi Caritas e che in alcuni casi sono riuscite a sganciarsi dal circuito dell’assistenza».
Pe questo, spiegano gli organismi ecclesiali, «non deve calare l’attenzione sulla povertà che richiede oggi più che mai di essere affrontata con lucide analisi e interventi adeguati». Quindi, nel merito della proposta del governo, si osserva come «rispetto alle previsioni contenute nella legge di bilancio 2023, che individuano alcune azioni transitorie per il 2023 e posticipano al 2024 la riforma complessiva del Reddito di cittadinanza, potrebbe ripercuotersi negativamente sulle persone molto fragili la scelta di ridurre da 12 a 8 mesi il contributo per i beneficiari considerati “occupabili”».
Tra questi ultimi, infatti, «ci sono coloro che non vivono in famiglie con minori, con persone con disabilità e con over 60enni», si tratta di «single, anche in situazioni di grave difficoltà» che, «in base a questo criterio di occupabilità, potranno essere incanalate in percorsi di inserimento lavorativo, pur non essendo in grado di farlo». «Sarà, dunque, necessario nei prossimi mesi – si spiega ancora – monitorare l’intervento transitorio per far sì che la riforma del 2024 eviti e superi errori e criticità di questa fase».
La Cei e la Caritas si offrono infine «come interlocutori per avviare un percorso condiviso con tutti gli attori in campo». Dunque, la chiesa mette al centro del proprio confronto con il governo il tema della povertà della crisi economica che colpisce duramente le famiglie dopo gli anni della pandemia e nell’infuriare della crisi energetica, d’altro canto era stata la stessa Caritas a denunciare il fatto che oltre 5milioni e mezzo di italiani vivono in «povertà assoluta».
Su questo argomento, del resto, ha insistito in queste settimane il quotidiano della Cei Avvenire. E anche l’Alleanza contro la povertà, organismo che raccoglie molte delle realtà cattoliche impegnate nel sociale oltre al mondo sindacale, aveva criticato nei giorni scorsi la proposta del governo di riduzione della platea dei beneficiari del Rdc.
L’economista cattolico Luigino Bruni, su Avvenire del 24 novembre, concludeva così un editoriale dedicato all’iniziativa del governo sul Rdc: «In tutte le società i poveri sono umiliati dalla vita e dai più forti. E oggi la politica preferisce chiudere un occhio o tutti e due sull’evasione fiscale dei ricchi, ma diventa spietata con i più fragili, e poi per tranquillizzarsi la coscienza ci vuole convincere che i poveri sono colpevoli della loro povertà. È l’arcaica “cultura della colpa” che dopo Giobbe e duemila anni di cristianesimo sta tornando a dominare le nostre anime: “Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete il povero” (Isaia 1,16-17)».
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