Castelguidone, provincia di Chieti, meno di trecento abitanti, diocesi di Trivento, a cavallo tra Molise e Abruzzo. C’era tutto il paese, e di più, alla giornata della legalità, responsabilità e impegno organizzata dal parroco e direttore della Caritas don Alberto Conti.

«In un piccolo posto è nata una cosa grande», ha detto don Luigi Ciotti, riferendosi alla scuola di politica intitolata a Paolo Borsellino trentuno anni fa, nel 1993, un anno dopo la strage di via D’Amelio.

È uno dei tanti incontri di fine estate. Questa mattina il presidente della Conferenza episcopale cardinale Matteo Zuppi celebrerà la messa al santuario di Montevergine, in Irpinia. In questi giorni si parla di nuovo protagonismo sociale e politico della chiesa, dopo la settimana sociale di Trieste a luglio, il meeting di Rimini di Comunione e liberazione, la Route nazionale della comunità capi scout Agesci a Verona.

E si dimentica che il protagonismo autentico delle comunità ecclesiali non si trova (soltanto) nei raduni nazionali, ma in una presenza capillare, diffusa, nel radicamento in tutti gli angoli del paese, nei territori in cui i politici nazionali si avventurano poco e i media nazionali spengono le luci.

Questione democratica

Non c’è oggi una questione cattolica in Italia, categoria in disuso da decenni, dall’unità nazionale in poi la questione cattolica è sempre stata la spia di una questione democratica più ampia, di separazione del popolo dalle classi dirigenti, di altre fratture. Va cercata nei luoghi dove aumentano la sfiducia, la disaffezione, l’astensionismo.

«È il silenzio, spesso indecifrabile, che riscontriamo in un vivere sociale dove vince il presentismo e il vuoto di significato; in un vivere religioso fatto di appartenenza senza impegno; con una conseguente zona grigia di inerte indifferenza», ha scritto Giuseppe De Rita in un piccolo libro, prezioso e denso, Lo sviluppo e il divenire. È lì che sta crescendo qualcosa.

L’avversione, anzi, l’istintiva allergia del mondo cattolico per il disegno di autonomia differenziata che divide il paese in regioni deboli e forti, non nasce a tavolino, con qualche sondaggio commissionato, ma dall’ascolto della realtà.

Appartiene a questa cultura politica il regionalismo, le autonomie locali, la diffidenza verso il centralismo, ma non l’egoismo territoriale, il mito delle piccole patrie con i piccoli governatori. Lo stesso vale per lo Ius scholae, e ancora più per lo Ius soli per i bambini nati in Italia da migranti, o per il radicale cambiamento della legge Bossi-Fini sui flussi. L’integrazione è una questione che chi fa educazione incontra quotidianamente.

È questo che fa reagire violentemente quel blocco formalmente ossequioso della chiesa, ma profondamente anti-cristiano e anti-evangelico. Vogliono una chiesa chiusa nel tempio, servile con i potenti, subalterna ai poteri. Con un Dio creato a loro immagine e somiglianza: un Dio che divide. E odiano, da sempre, la chiesa che esce dalle sacrestie, che si sporca le mani, che riprende voce accanto a tanti altri, che è in strada, che va in mare a soccorrere i migranti, come ha fatto la barca della fondazione Migrantes della Cei accanto a quella della ong Mediterranea Saving Humans, benedetta dal papa, con la sua catechesi sul mare e il deserto, sul peccato dei respingimenti. Sotto l’attacco della strana alleanza tra i tradizionalisti e le destre anticlericali.

Seminare il campo

Per un trentennio, dopo la fine dell’unità politica dei cattolici nella Democrazia cristiana, la leadership ecclesiastica del cardinale Camillo Ruini ha teorizzato la fine dell’impegno politico per i laici credenti, accentrando nelle mani del presidente della Cei la delega a trattare con la politica, in un rapporto di negoziato, di scambio al vertice. Il risultato è stato il deserto di figure, di intelligenze, di reti sociali. Un impoverimento della chiesa che ha impoverito anche la democrazia.

Oggi l’impegno del cardinale Zuppi e di tante altre figure ecclesiali e laiche che stanno riemergendo, su spinta di papa Francesco, è di semina su un campo che esiste, ma che va rianimato. Una semina destinata a dare frutti in futuro, che non si misura sulle esigenze contingenti della politica. La semina non riguarda la formazione di futuri partiti di centro, non è l’immagine di una chiesa che guida l’opposizione al governo Meloni (curiosa critica che arriva da chi appoggiò il Family Day del 2007, manifestazione contro il governo guidato dal cattolico Romano Prodi, sponsorizzata dalla Cei di allora).

La semina è una risposta a chi punta sulla divisione del paese. Divisioni territoriali, divisioni di genere, generazionali, divisioni tra ricchi e poveri, tra vecchi e nuovi italiani, con il razzismo che ritorna, con le rotture non riparate da nessuno. L’uscita dal tempio dei cattolici, come la definiva anni fa padre Bartolomeo Sorge, è contrastata da chi li vorrebbe silenziosi, indifferenti, nella zona grigia. Per chi scommette su una ripresa di partecipazione della società italiana, per chi riuscirà a organizzare questa che per ora è appena una testimonianza di buona volontà, è invece una occasione. A saperla cogliere.

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