Il concordato della discordia semina malumori tra gli alleati di governo. Come sempre quando ci sono di mezzo risorse importanti. La vera battaglia sulla manovra sta infatti per iniziare su un punto che, a oggi, ancora non è inserito nel testo della legge di Bilancio: l’uso del gettito proveniente dal concordato preventivo, i cui termini di adesione sono scaduti poche ore fa.

È il famoso “tesoretto”, parola che provoca l’orticaria al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, ma che fa gola alle forze di maggioranza. Ed è anche l’ennesima anomalia della manovra del governo Meloni: una parte decisiva delle risorse economiche arriva dopo la presentazione del testo, a compimento della solita sanatoria. Favorendo un clima di incertezza.

Sfida forzista

L’unica garanzia è che qualcosa arriverà nelle casse dello stato. Forza Italia è determinata a puntare i piedi sull’impiego delle risorse a favore del ceto medio. «Il nostro partito vuole sentire ragioni», è la linea raccontata, con varie sfumature, da più deputati. Ogni centesimo recuperato deve essere investito sulla riduzione del secondo scaglione dell’aliquota Irpef, facendola passare dal 35 al 33 per cento, magari intervenendo sui redditi fino a 60mila euro.

L’impegno di Antonio Tajani è solenne, perché la famiglia Berlusconi, attraverso i suoi emissari, ha fatto sapere che nella manovra – pur apprezzata per l’equilibrio e l’attenzione ai conti – c’è poco sul fronte della riduzione della pressione fiscale. Al contrario si aumentano le tasse sulle imprese digitali con un’interpretazione estensiva della web tax, nata solo per evitare che i big di internet se la cavassero con pochi soldi versati all’erario a fronte di fatturati miliardari. Serve un paletto, un simbolo per invertire la tendenza.

FI è chiamata mitigare questa tendenza, secondo il pensiero della famiglia Berlusconi trasmesso agli eletti in parlamento. Certo, Tajani non si gioca la leadership su questo punto. Ma deve dimostrare agli eredi del Cavaliere una capacità di incidere che finora è stata limitata. Un segnale necessario per puntellare un rapporto non certo idilliaco.

La data del 31 ottobre è comunque arrivata: era cerchiata in rosso come termine definitivo del concordato preventivo per consentire al governo di trovare la quadra della manovra a dispetto dei commercialisti che avevano chiesto una proroga. Ipotesi scartata da palazzo Chigi fino all’ultimo. E per questo hanno annunciato uno sciopero fino al 7 novembre.

«I commercialisti non sono stati messi nelle condizioni professionali e deontologiche di svolgere al meglio il proprio mandato professionale, a tutela degli stessi contribuenti e pertanto non si può fare altro che ricorrere all'estremo strumento dell'astensione», hanno annunciato le associazioni Anc, Andoc, Fiddoc e Unico. Il motivo è chiaro: l’esecutivo ha fretta. Deve fare i conti prima possibile sulle risorse aggiuntive da piazza tra la manovra e il decreto fiscale già in parlamento.

Le misure più attese erano legate all’ennesimo condono dell’era Meloni con l’esecutivo che ha spinto, anche sotto forma di pubblicizzazione, per accedere al concordato preventivo.

Le prime stime annunciano un flop – addirittura si parla di un 10-15 per cento di adesioni – ma come annunciato dal viceministro dell’Economia, il meloniano Maurizio Leo, occorre attendere una decina di giorni. Giorgetti non si è lanciato in previsioni e ha scelto la linea minimal: «Tutto quello che arriva più di zero è benvenuto».

Richiesta flat tax

Al Mef, comunque, è arrivata la posizione inflessibile di Forza Italia. Leo – nel corso di un’audizione al Senato – ha detto che la priorità sarà l’intervento sul secondo scaglione dell’Irpef. Tutto facile? Non proprio. Giorgetti deve comunque rispondere ai desiderata della Lega, il suo partito, che pretende un potenziamento della flat tax (tassazione fissa al 15 per cento) per le partite Iva. Oggi la soglia è fissata a 85mila euro, l’obiettivo è di portarla un po’ più in alto. Il segretario leghista, Matteo Salvini, vorrebbe rivendicare un risultato.

Insomma, si assiste alla spartizione di un bottino che potrebbe risultare magro. Tanto che dalle opposizioni chiedono che Giorgetti vada in parlamento a spiegare cosa intende fare. «Il concordato è un punto centrale del confronto sulla manovra che è appena iniziato e il governo in momenti diversi ha parlato prima di 3 miliardi di introiti previsti, poi di 2 miliardi e infine di 1 un miliardo», ha ricordato il capogruppo del Pd al Senato, Francesco Boccia, evidenziando il clima di incertezza e rilanciando l’interrogazione depositata dalla collega a palazzo Madama, Cristina Tajani, che chiede «informazioni, approfondimenti, certezze sui dati».

Al netto dell’esito del concordato, comunque, dalla Cgil viene chiesto un cambio di passo sulle politiche fiscali. Sono «interventi pasticciati, poco coordinati fra loro e ben lontani dall’obiettivo di razionalizzare i rapporti fisco-contribuente e una vera lotta all’evasione», ha sottolineato il sindacato di corso d’Italia in una memoria depositata al Senato.

Una richiesta destinata a finire nel vuoto nell’epoca del governo delle sanatorie.

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