Nel nostro paese il mondo produttivo tende sempre a dare una chance a tutti i governi, soprattutto nella prima parte della legislatura. È raro vedere le organizzazioni imprenditoriali, e oramai anche sindacali, fare da contrappeso agli esecutivi. In Italia non è mai esistito un establishment né tantomeno poteri forti in grado di condizionare davvero le scelte di fondo della politica, dunque endorsement e sconfessioni hanno effetti limitati. Tenuto a mente tutto ciò, il rapporto tra questo governo e gli industriali segnala una connessione che appare quanto mai solida per le consuetudini italiane.

L’impressione veicolata dalla partecipazione di Giorgia Meloni all’assemblea di Confindustria è che al momento il mondo produttivo non possa avere al momento altro interlocutore che i partiti di centrodestra. E questo per una serie di ragioni non del tutto imputabili ai successi, alle politiche e alla credibilità della destra di governo.

I motivi

La prima ragione è che nelle opposizioni non c’è una particolare volontà politica di andare incontro alle esigenze di chi produce: Movimento 5 Stelle e Avs prediligono politiche sociali e un ambientalismo radicale che sono invisi agli industriali, il Pd non ha ancora sviluppato idee in ambito fiscale e industriale che possano suscitare particolare entusiasmo in chi produce, il terzo polo si è politicamente estinto.

Inoltre, il governo vanta dei discreti risultati economici ottenuti grazie alla stabilità politica, che ha permesso di evitare fiammate sul costo del debito pubblico, e ad una congiuntura internazionale che è stata fino ad oggi favorevole e ha permesso l’aumento dell’occupazione. Meloni ha poi inanellato una serie di scelte giuste se guardate con gli occhi del mondo imprenditoriale: eliminazione del reddito di cittadinanza; creazione di un argine, pur attraverso troppi cambi di regole, al superbonus; modifica del Pnrr, ri-orientato verso la politica industriale; riduzione, pur limitata, del cuneo fiscale.

Sul piano politico questo apprezzamento degli industriali per il governo non va sovrastimato sia perché gli interessi organizzati non firmano mai assegni in bianco a chi governa sia perché tale sostegno è quasi del tutto irrilevante sul piano elettorale. Che poi Meloni possa essere un perno importante per il mondo dell’industria lo si deve alla postura corporativa che il governo di destra ha sempre avuto, soprattutto per gli interessi di certe categorie di produttori.

Le incognite

Restano naturalmente delle incognite quando si guarda al futuro economico. La più grande si chiama energia che le imprese italiane pagano il doppio della media europea. Non basteranno sgravi e incentivi richiesti dagli industriali, ma saranno necessari investimenti in infrastrutture quali rinnovabili, nucleare di nuova generazione e rigassificatori. E su questo il governo è fermo. Anche qualora Meloni riuscisse a frenare il green deal europeo, cosa che oggi dopo due anni di governo non è riuscita a fare, il problema dell’energia e la necessità di nuovi investimenti pubblici e privati resterebbe.

Inoltre, i maggiori investimenti, i dazi e la defiscalizzazione in ricerca e sviluppo industriale promessi dal governo dovrebbero essere compensati da una riforma del welfare profonda, che metta al centro la formazione del lavoratore e la riduzione del costo del lavoro invece delle pensioni e dei sussidi. In alternativa, si ritornerebbe alla solita politica costruita sul debito e sulle rendite, sugli incentivi a fondo perduto e sul protezionismo ad hoc.

Senza affrontare questi nodi c’è la conquista di un sostegno effimero del mondo produttivo, che rischia di risolversi in mere misure di tutela di interessi corporativi, ma senza possibilità di promuovere uno sviluppo robusto. Prima o poi, quando arriverà il momento di fare i conti con l’assenza di riforme concrete, se ne accorgeranno gli elettori oltre che gli industriali.

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