Per il femminismo occidentale lo spazio domestico è quello della segregazione delle donne. Significa escludere dallo sguardo l’esperienza dei corpi razzializzati esposti al potere bianco
Si chiama Idy, ma poteva chiamarsi papà, zio, fratello. Si sveglia a Santa Croce sull’Arno, ma poteva essere il quartiere della Stanga a Padova o il Vasto a Napoli. Si avvia a lavoro, con i mezzi pubblici. L’autobus è pieno, il posto accanto a lui è vuoto. Una signora si stringe la borsetta. Idy scende in centro e si avvia verso il negozio. Fa la guardia di sicurezza in una boutique di lusso nella via dello shopping. Si cambia lì da quando la responsabile gli ha fatto notare che il completo che indossa altrimenti odora di spezie e cucina. La giornata è fatta di un susseguirsi di ingressi e uscite di clienti internazionali, accenti diversi e portafogli gonfi.
Quando veste la cravatta come divisa, il suo corpo cambia di segno. Le donne che impaurite, di sera, attraversano la strada per evitarlo, ora in negozio gli si avvicinano, a volte gli sbattono addosso come se non lo vedessero, altre volte gli sorridono come se fossero sue vecchie amiche, altre ancora lo squadrano da capo a piedi come fosse un pezzo di carne esposto nella vetrina di una macelleria. Del resto, lui è lì per proteggerle, quanto il marchio che loro amano. Idy è un uomo, ma su tutte queste donne non ha potere.
Mentre sta in piedi impalato, annoiato, addomesticato nel suo completo inodore, la sua figura ricorda quella di un ascaro, gli indigeni dell’esercito coloniale italiano. Anche loro dipinti come estranei alla civiltà, anche loro riabilitati da un’uniforme che li asserviva all’impero.
Un luogo sicuro
Dopo dieci ore di lavoro e un’ora intera di tragitto, Idy arriva finalmente a casa. Dietro alla porta si lascia l’intera geografia razziale dello spazio pubblico e accede all’unico spazio sicuro a sua disposizione, l’unico in cui si interrompe finalmente l’esposizione diretta agli sguardi dei passanti, i controlli dei documenti da parte della polizia, i cartelloni pubblicitari che propagandano canoni di bellezza bianca, i monumenti pubblici che celebrano le gesta della storia coloniale italiana.
Lo spazio della casa è stato a lungo analizzato dal femminismo bianco occidentale come il luogo primo della segregazione delle donne, confinate al lavoro domestico, ridotte al ruolo di madri e mogli. È stato considerato lo spazio privato per eccellenza, dentro al quale ciò che accade non è da considerarsi di dominio pubblico. Rivendicando che «il privato è politico», il femminismo ha rotto le serrature di casa, e denunciato lo spazio domestico come la sorgente prima della violenza patriarcale, che può agire indisturbata perché derubricata a faccenda personale.
È sulla base di questo ordine morale che il vissuto delle donne dentro casa è stato a lungo cancellato dalle analisi sul funzionamento dei sistemi di dominio. Ma di quali case si parla? Di quali donne? Da una prospettiva femminista antirazzista, resta fondamentale rivendicare che il personale è politico, ma ridurre lo spazio domestico a terreno di violenza e sfruttamento, significa restringere lo sguardo all’esperienza dei corpi bianchi ed elevarla a legge universale.
In una società razzista, le mura di casa sono il perimetro dell’unico luogo sicuro, il solo spazio in cui i corpi esposti alla violenza razziale si sottraggono al principio che struttura la gerarchia dell’umano e che distingue tra le vite che valgono e quelle che, considerate inferiori, sono esposte a morte prematura.
Questa è la condizione di gruppi sociali e popoli interi che in cinque secoli di colonialismo si sono storicamente visti privati della terra chiamata “casa”: sradicati, deportati come schiavi, costretti alla migrazione e alla ricerca di un rifugio, seppelliti sotto le macerie dei bombardamenti che proprio mentre scriviamo, ridefiniscono il concetto di genocidio e pulizia etnica sotto al nome di guerra difensiva contro degli “animali umani”.
Spazio decoloniale
Da una prospettiva femminista antirazzista, lo spazio della casa, è lo spazio decoloniale per eccellenza che protegge Idy, come le vite razzializzate in senso ampio, dal potere coloniale di spezzare i legami e invadere, o meglio, penetrare con la violenza, la dignità dei corpi.
La casa come spazio decoloniale, nella vita quotidiana delle persone razzializzate, non corrisponde necessariamente a un appartamento. Può essere un cortile, un garage trasformato in luogo di culto, un bar al crocevia di un quartiere segregato. Ma può essere anche un centro educativo, aperto con grande sforzo dai figli e dalle figlie dell’immigrazione, che avendo studiato nelle scuole italiane, hanno fatto tesoro dei saperi acquisiti e hanno messo il loro lo status di stranieri “integrati” a disposizione di chi è rimasto ai margini, per ricostruire e proteggere la comunità. È uno spazio decoloniale perché vive della pratica di resistenza quotidiana al potere di ridurre la vita, in tutte le sue articolazioni umane e non umane a oggetto di possesso.
Poteva chiamarsi papà, zio, fratello, ma si chiama Idy, perché il 5 marzo 2018, a Firenze, Idy Diene è stato ucciso a colpi di arma da fuoco da un cittadino italiano che ha deciso che una vita Nera valeva meno di una vita bianca. E come pensare altrimenti, quando tutto intorno a noi dice questo?
L’esposizione
Idy quella sera non è tornato a casa. Diene non faceva la guardia di sicurezza ma il venditore ambulante, ma avrebbe potuto fare l’operaio – come le cinque vittime del crollo nel cantiere Esselunga – il bracciante – come Soumaila Sacko, ucciso a colpi di fucile a San Calogero – lo studente – come Giacomo Valent, assassinato a coltellate dai suoi compagni di classe – e sarebbe stato lo stesso.
Perché quando un corpo razzializzato attraversa lo spazio pubblico, il marchio che porta lo espone allo sguardo, al giudizio, al potere bianco. Lo spazio pubblico è uno spazio di privilegio e di oppressione, pregno di una dialettica razziale a cui è impossibile sottrarsi.
Perciò, l’otto marzo, mentre scioperiamo contro la violenza patriarcale, il femminismo Nero e antirazzista ci impone di pensare alle donne che non sono con noi. Alle donne impegnate a mantenere una casa – una comunità di resistenza al razzismo – in cui Idy possa tornare, impegnate a sperare che Idy torni.
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